Ruggine e sabbia al rally benefico Rust2Dakar

Dal porto di Tangeri al mitico Lago Rosa in sella a vecchie glorie degli anni ’90; nove giorni tra Marocco, Mauritania e Senegal per il primo rally di beneficenza italiano. Vi raccontiamo la nostra esperienza alla Rust2Dakar.

di Eleonora Filon e Dario Tortora


A guardare le mappe sembrava sarebbe stato noioso, invece in questo nulla accade di continuo qualcosa. Che il deserto sia immobile è un luogo comune radicato in chi, come noi, non ci vive ed è solo attraversandolo che si può avere una vaga idea di come cambi.

Ricevo quest’epifania su un rettilineo infinito che ci sta portando in Senegal, in una carovana scapestrata quanto improbabile di rottami che verranno lasciati lì una volta giunti a destinazione.

Ma andiamo con ordine e partiamo dall’inizio. Siamo alla Rust2Dakar, il primo rally di beneficenza a essere organizzato in Italia, a cui RoadBook non poteva mancare. Intrigati dall’iniziativa, siamo stati Dario e io a vestire i colori della rivista per raggiungere il traguardo sul mitico Lago Rosa, vicino a Dakar.

Considerato che il rally si svolge da Santo Stefano a poco oltre l’Epifania, coinvolgiamo una coppia di nostri compagni di viaggio storici, Margherita e Stefano, che risiedono nella capitale francese: accettano di buon grado, magari anche solo per poter dire di aver fatto davvero una “Parigi-Dakar”.

Per darci un tono di internazionalità, ci iscriviamo come squadre separate: i team RoadBook Italia e RoadBook France, a bordo di due Aprilia Pegaso 3 650, una Yamaha TT600E e una Honda NTV 650.

È partito un bastimento

Non abbiamo ancora digerito il panettone che all’alba di Santo Stefano siamo già in viaggio per Genova. Arriviamo alla banchina della nave diretta a Tangeri già in ritardo sull’ora di convocazione e, come da regolamento, la Race Direction ci sottrae punti.

Poco male perché non abbiamo brame di vittoria e accogliamo con distensione il primo di tanti simili responsi. Otteniamo il sigillo della verifica tecnica sui veicoli e i numeri di gara, con tanto di adesivi che, gongolanti, appiccichiamo sui nostri parabrezza.

Spacchettando i bagagli nella stiva iniziamo a familiarizzare con gli altri motociclisti in gara: Alessandro Colombo e Andrea Bellini del team LariusBikers che hanno tirato a lucido due BMW F 650 GS, e il team Maxafrica, ossia Massimo Turrata, che guida una splendida Yamaha Super Ténéré 750 del 1992.

È ancora presto per ricordarci i nomi, ma questa allegra brigata di otto teste – tre dai folti capelli e cinque dal nostalgico ricordo di averli avuti – è già entrata nello spirito da gentlemen cui l’organizzazione anela e, col passare dei giorni, andrà costruendo un’amicizia che durerà oltre il Lago Rosa.

Le presentazioni continuano sulla nave con i team a quattro ruote: lì per lì c’è un po’ di involontario distacco fra categorie diverse, ma basta scoprire che alcuni di loro sono anche motociclisti e subito l’atmosfera si scioglie.

La Race Direction ci consegna il road book con le indicazioni relative alla prima parte del percorso, ricordandoci che non siamo compagni di viaggio ma concorrenti in gara. Si è già diffusa un’affettuosa sintonia e, stese le carte geografiche sui tavoli del bar, cominciamo a valutare ognuno il percorso più adatto per sé.

Non siamo compagni di viaggio ma concorrenti in gara

Guasti e ancora guasti

Se è vero che i migliori ricordi di un racconto motociclistico non sono le vittorie ma i guasti subiti, allora i team di RoadBook hanno davvero di che vantarsi. Appena sbarcati dalla nave una delle Aprilia comincia a fare capricci con l’accensione e da lì in poi sarà un calvario.

Non vogliamo tediarvi con tutti i guasti meccanici avuti in suolo marocchino, ma sappiate che i primi giorni ci hanno messo a dura prova.

A ogni ripartenza riusciamo a percorrere solo una parte dei chilometri necessari a raggiungere in tempo il primo checkpoint, con la distanza dagli altri team che cresce sempre di più.

Il ritardo accumulato ci fa optare per il percorso Rookie (difficoltà bassa, strada più veloce) consentendoci di racimolare una manciata di punti passando in gran corsa davanti al solo waypoint presente lungo l’autostrada.

I primi giorni ci hanno veramente messo a dura prova

A Rabat i guasti elettrici diagnosticati vengono risolti e si riapre uno spiraglio di speranza, che ad alcuni di noi non è mai mancata. Possiamo farcela, ma le tappe dovranno essere sostenute se vogliamo ricompattarci al gruppo prima della frontiera mauritana.

Tra un guasto e l’altro il paesaggio sta cambiando: l’inconfondibile rosso della terra marocchina, spruzzata di verde dalla vegetazione, cede il passo al giallo della sabbia del deserto e a sconfinati filari di pale eoliche.

Cominciamo a non vedere altro che una lingua di asfalto. Guidare è liberatorio e il corpo è immerso tra due climi: a destra l’aria fresca e umida dell’oceano, a sinistra il soffio caldo del deserto.

Le moto reggono ma l’armata Brancaleone manca il checkpoint e, mentre gli altri si godono il giorno di riposo, è costretta ad affrontare una “tappa marathon” di 900 km, riuscendo ad arrivare in tempo a Dakhla, a trecento chilometri dal confine con la Mauritania.

Qualcuno ci abbraccia confessando che non si aspettava ce l’avremmo fatta, ma i team di RoadBook sono avvezzi a chiudere la carovana e non mollano mai.

CI rimettiamo in movimento tutti insieme l’indomani di buon’ora. A condurre la carovana c’è ora il presidente della Tavolo 8 Davide Virardi, al volante di una vecchia Nissan 4×4 che lui scherzosamente appella “il mio catrame”.

È un uomo fumantino, che non si sforza di piacere a tutti per forza, dotato di un singolare senso dell’umorismo che svela quando si abbandona ai racconti di viaggio che infarcisce di aneddoti e informazioni.

Conosce molto bene questo territorio e ci ha avvertiti che oltrepassare la frontiera tra Marocco e Mauritania sarà un’esperienza che ricorderemo e la cui durata è impossibile da determinare.

Qualcuno ci abbraccia confessando che non si aspettava ce l’avremmo fatta

Sabbia tra i denti

Se uscire dal Marocco risulta abbastanza semplice, ottenere i visti mauritani è tutta un’altra attesa. Contiamo sette ore quando riceviamo il via libera al calar del sole. L’arrivo al camping a Nouadhibou, dove ad attenderci troviamo un bivacco degno di questo nome e un falò regolamentare crea emozioni forti. Stentiamo a credere di essere davvero arrivati fin qui.

Si riparte con destinazione Nouakchott, la capitale della Mauritania, dove l’organizzazione ci ha riservato un alloggio speciale in una guest house gestita da un francese, un tempo dimora della cantante mauritana Dimi Mint Abba, conosciuta come la diva du désert.

La tappa copre quasi cinquecento chilometri di nulla. Capisci che stai percorrendo un luogo singolare quando smetti di cercare un benzinaio e cerchi la benzina, che troviamo venduta in taniche da dieci litri a 2,5 euro al litro al mercato nero “prendere o lasciare”.

Quasi cinquecento chilometri di nulla

La Mauritania è uno dei Paesi più poveri del continente e i fortunati che guidano una macchina – se così si possono chiamare i rottami che abbiamo incontrato – vanno a gasolio e la benzina è praticamente introvabile.

Per riuscire a capire dove fare rifornimento lungo la strada bisogna entrare nei costumi locali, ma non è tempo di questionare quando la benzina è più preziosa dell’acqua (che nel deserto è pure un paradosso), a maggior ragione perché la Yamaha TT600E ha un serbatoio di appena 12 litri e con noi abbiamo una sola tanica da 10 litri.

La giornata passa veloce e la guida in sé non è impegnativa perché siamo su un rettilineo infinito. Sono altri gli elementi che affaticano: quando incroci i camion devi chiudere la visiera se non vuoi che la sabbia ti scartavetri la faccia; devi accelerare per contrastare lo spostamento d’aria e, subito dopo, il ceffone laterale del vento.

Scopro presto che il deserto è vivo. Lo capisco quando vedo qualcosa serpeggiare dentro l’asfalto: è il riporto eolico che si crea quando la sabbia portata dal vento cerca di mangiarsi il bitume, se non c’è un caterpillar a spazzarla via.

È qui che giunge la rivelazione di cui parlavo all’inizio: temevo di addormentarmi alla guida perché pensavo che il deserto fosse monotono, invece muta continuamente. Cambiano i colori, le forme delle dune, la vegetazione di cui gli ingordi dromedari fanno incetta. Siamo felici e per questo sorridiamo senza ritegno con la sabbia tra i denti.

Mai mollare

L’indomani usciamo rapidi da Nouakchott e ci rendiamo conto di come l’Africa bianca della Mauritania stia gradualmente lasciando il passo a quella nera. La vegetazione si fa più rigogliosa e i piccoli villaggi diventano più frequenti.

Prossima destinazione: la frontiera Mauritania-Senegal. Per raggiungerla, la Race Direction ci fa passare dal Parc National du Diawling, facendoci percorrere una goduriosissima pista in terra battuta – già teatro di gara ai tempi della Dakar – lungo la quale incontriamo facoceri, pellicani, scimmie (e per fortuna evitiamo i coccodrilli).

Un tratto di sterro bellissimo da fare in moto nonostante i copiosi tratti di tôle ondulée così aggressivi da smontare le capsule dai denti.

Una pista già teatro di gara ai tempi della Dakar in Africa

Altra frontiera altra attesa, con lunghe ore di pausa che ci permettono di osservare e di fissare i dettagli. Il fatto che i nostri veicoli rimarranno in Senegal rende la burocrazia diversa e per certi versi più complicata.

Ma il sole sta scendendo e la voglia di ripartire comincia a farsi sentire. Ottenuti i visti e le assicurazioni, risaliamo ognuno sul proprio veicolo e, scortati dalla polizia, entriamo in Senegal accolti da un gruppo di musicisti e ballerini che ci danno un benvenuto che non dimenticheremo.

A pochi chilometri ci aspetta la città di Saint-Louis, che fu capitale in epoca coloniale, molto suggestiva perché la parte vecchia si sviluppa su un’isola del fiume Senegal. Soggiorniamo all’Hôtel de la Poste, una chicca d’epoca interamente dedicata ad Antoine de Saint-Exupéry, l’autore de Il piccolo principe, e al periodo in cui lavorava come pilota per il servizio aeropostale fra Tolosa e Dakar.

Gustiamo un buon pasto nell’altrettanto storico ristorante Flamingo con vista sull’iconico ponte Faidherbe. Mentre ci concediamo finalmente la birra che non beviamo da un paio di Stati, realizziamo che la meta è ormai vicina e che il nostro sogno nel cassetto sta per realizzarsi.

Al mitico Lago Rosa ci arriviamo comunque dopo il calar del sole, tanto per cambiare: del resto il buon Davide ce l’ha detto sin dal primo rally meeting che il buio sarebbe stato il nostro nemico e che avremmo sempre rincorso la luce.

Così è stato, e siccome la moto insegna che le insidie sono sempre in agguato e non si deve mai perdere la concentrazione – soprattutto a un passo dall’arrivo – abbiamo pure rischiato di dover lasciare una moto a pochi chilometri dalla meta per un problema al carburatore.

Ma ormai lo sapete: i team di RoadBook sono avvezzi a chiudere la carovana e non mollano mai. Figuriamoci a un passo dal traguardo.

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Le regole del rally

La Rust2Dakar è un progetto nato per raccogliere fondi a favore della ONLUS Tavolo 8, impegnata dal 2005 nella creazione e sviluppo di progetti in Senegal e Gambia. Non è una competizione sportiva ma un’avventura motoristica destinata ai comuni mortali che hanno subito il fascino della leggendaria Paris-Dakar e non hanno i mezzi e il fisico per partecipare al rally più duro del mondo.

A differenza della competizione creata da Thierry Sabine nel 1978, per partecipare alla Rust2Dakar non servono budget da capogiro e la pregressa classificazione in rally massacranti. Bastano spirito di adattamento e accettare il fatto che, durante il viaggio, l’organizzazione non fornisce alcun tipo di assistenza (anche se disbriga per tutti la burocrazia frontaliera).

È aperta a chiunque sia disposto a procurarsi un mezzo di qualsiasi tipo (moto, auto, furgone, ambulanza, camion) da lasciare all’organizzazione una volta giunto a destinazione, perché venga utilizzato nei progetti di cooperazione o venduto per finanziare gli stessi.

Il percorso è libero – anche se nella tratta centrale la strada praticabile è una sola – e ognuno può scegliere le sistemazioni che meglio crede. L’organizzazione, che partecipa alla gara come Race Direction, fornisce un road book con un percorso consigliato tra un checkpoint e l’altro, suddiviso in livelli di difficoltà: Rookie, Pro e Dakar Legend.

Da sapere prima di partire

Fino ad Agadir si può arrivare con una tirata sulla moderna autostrada che passa per Marrakech, scendendo con la statale lungo la costa oppure inerpicandosi sulle montagne dell’Atlante. Nella tratta lungo il Western Sahara sarà necessario fare delle tappe molto lunghe perché gli unici posti dove si trova facilmente da dormire sono Tan-Tan, El Aaiún, Dakhla e, una volta in Mauritania, Nouadhibou e la capitale Nouakchott.

Fate bene i conti perché è altamente sconsigliato viaggiare col buio, visto che spesso i dromedari attraversano la strada e molti veicoli locali viaggiano a luci spente. Considerate almeno 4-5 ore alle frontiere per le pratiche dei visti di ingresso.

In Mauritania è difficilissimo trovare benzina se non nella capitale. Non perdete tempo con i distributori, che erogano solo gasolio, piuttosto cercate nei villaggi chi espone una tanica vuota a indicare la disponibilità di combustibile: di solito viene venduto a suon di taniche da dieci litri a cifre esorbitanti (2-3 euro al litro), ma tanto vale rassegnarsi subito perché non c’è altra scelta.

Il transito di frontiera principale tra Mauritania e Senegal è quello di Rosso, con traghettamento sul fiume Senegal, caratterizzato da code estenuanti, caos e immancabile corruzione; è molto più conveniente deviare verso il piccolo posto di confine di Diama, transitando così lungo la bella pista sterrata attraverso il Parc National du Diawling.

A tutte le frontiere si trovano improvvisati cambiavalute e venditori di SIM, a cui ci siamo sempre affidati riscontrando precisione e onestà; non acquistate così la SIM senegalese, però, perché la pratica va fatta in negozio con registrazione del passaporto.