di Marco Manzoni
Fu tra la fine delle scuole medie e l’inizio delle superiori che realizzai dell’esistenza di persone che per lavoro provavano le moto e ne scrivevano sui giornali. Erano gli anni a cavallo tra il vecchio e il nuovo millennio, in pieno boom delle super sportive e la mia cameretta era tappezzata di poster di moto in piega e doppie pagine staccate dalle riviste e appiccicate agli armadi.
Spiccava anche una stampa autografata di Valentino Rossi, nemmeno ottenuta direttamente dal sottoscritto, ma da un’amica di una zia che a sua volta aveva una conoscenza che bazzicava l’ambiente delle corse e possedeva dei rarissimi pass per i paddock del motomondiale.
Ma il poster di Valentino non era realmente il centro delle mie attenzioni, come non lo era quello del grande Carl Fogarty che salutava con il dito medio in sella a una leggendaria Ducati 916. I veri protagonisti della cameretta erano “eroi” dalla fama decisamente più di nicchia. Persone apparentemente normali che facevano un lavoro per me straordinario: erano dei tester!
Provavano in anteprima le moto più belle del pianeta e ne raccontavano pregi, difetti e soprattutto il fiume di emozioni che queste erano in grado di scatenare. Ero talmente affascinato da questo mondo che ogni volta qualcuno mi chiedeva cosa volessi fare da grande, rispondevo proprio: «il tester». E puntualmente capivo dalle facce sorprese che i miei interlocutori non avevano la minima idea di cosa stessi dicendo e che avrei dovuto spiegare che lavoro fosse.
La rivista di cui ero follemente innamorato e di cui conservo ancora le copie si chiamava SuperWHEELS e i suoi protagonisti, quelli che appendevo alle pareti, erano dei ragazzi che portavano sulle tute in pelle dei nomi che ricordo ancora bene: Mazzali, Poli, Ballerini… Idoli che percepivo come reali, molto più concreti e vicini rispetto agli inarrivabili piloti del mondiale.
Negli anni ho sempre desiderato lavorare in questo settore, ma il tempo e le vicende del quotidiano mi hanno portato altrove. Complice forse anche un po’ di mancanza di determinazione, non ho mai fatto nulla di concreto per inseguire questo sogno, come fosse qualcosa di astratto o come quando senti i bambini dire che vogliono fare gli astronauti ma poi, nella realtà, sono davvero pochi quelli che hanno la costanza e la tenacia di seguire un percorso specifico per farlo.
Poi un giorno, quasi per caso, qualcosa è cambiato. Anziché limitarmi a guardare i contenuti sulle moto, ho iniziato a crearne io stesso, con impegno, costanza e dedizione, ma soprattutto cercando di essere professionale e di produrre qualcosa di utile per gli altri.
Questo approccio ha stravolto le cose e in breve tempo le opportunità sono arrivate. Il classico percorso lavorativo valido fino a qualche decennio anno fa, che prevedeva un titolo di studio, un periodo di apprendistato e di gavetta che consentiva di entrare in azienda e fare carriera, non è più l’unica strada possibile. Oggi le vie sono molteplici e si hanno infiniti modi e strumenti per sviluppare le proprie competenze, creare qualcosa di nuovo e differenziante, e comunicare al mondo il proprio valore per attirare occasioni nuove.
Nonostante questo, capita spesso di imbattersi in narrazioni traboccanti di contenuti raffazzonati, feed pieni di selfie autocelebrativi, scarsa qualità e assenza di professionalità. E va benissimo così quando l’intento è quello di passare il tempo o di crearsi un proprio “album delle vacanze” online.
Se invece si vuole tentare di ritagliarsi un proprio spazio e trasformare una passione in un mestiere, non è sufficiente scattarsi una foto al giorno o fare il video POV accompagnandolo con l’ultimo brano in tendenza nei Reel di Instagram. Servono impegno e professionalità ed è necessario che i contenuti siano pensati per offrire valore a chi ne fruisce, non a chi li crea.
Contenuti pensati per offrire valore a chi ne fruisce, non a chi li crea
Paternale a parte, devo ammettere che mi sento parecchio fortunato ad avere la possibilità di fare questo mestiere tanto sognato negli anni e, soprattutto… a essere diventato collega di Aldo! Quello stesso Aldo Ballerini che stava ginocchio a terra, in piega, appeso sopra al mio cuscino, ora condivide gli uffici con la nostra redazione nei locali dell’editore Sprea.
Non vi dico l’imbarazzo e la reazione balbuziente che ho avuto quando l’ho conosciuto per la prima volta in persona e ho potuto scambiarci quattro chiacchiere. Non lavorando però a stretto contatto, lui non sa nulla di tutto questo, ma per me è stato un momento incredibilmente emozionante: a distanza di oltre vent’anni ho ritrovato uno dei miei grandi idoli e condivido con lui oneri e onori di questa professione pazzesca.
Ora Aldo si sta lanciando in un nuovo e stimolante progetto editoriale con Sprea che tratterà di Yougtimer, ma non vi posso dire altro, scoprirete tutto nei prossimi mesi. In bocca al lupo collega, tiferò per te con lo stesso entusiasmo del me sedicenne appassionato.
Cose Che Capitano pubblicato su RoadBook 39