Appunti – Residenze effimere

di Antonio Femia


La trafila per il check-in e il controllo passaporti al terminal traghetti di Genova è stata impegnativa, ma finalmente siamo a bordo della nave GNV che ci porterà a Tunisi per realizzare il servizio di copertina del numero 36. Preso possesso della nostra cabina, Dario e io iniziamo a bighellonare per la nave: osserviamo le operazioni di imbarco dei veicoli, l’equipaggio indaffarato nelle varie mansioni, i trasportatori che fanno comunella ai tavoli del bar. Noi europei siamo in pochi, i passeggeri sono per lo più famigliole tunisine che rientrano per festeggiare con i parenti la fine del Ramadan ormai prossima.

La lotta educata e civile di chi viaggia in poltrona per accaparrarsi un posto è iniziata da un pezzo, dando forma a insediamenti temporanei che cambieranno durante le prossime venticinque ore di navigazione. In questo vociare arabo di bambini che giocano e donne velate che gli corrono dietro mi tornano in mente gli espressi notturni della mia infanzia: il Freccia del Sud e il Conca d’Oro, quei treni gloriosi ed epici che hanno unito il Sud a Roma e Milano. Negli anni ’80 erano ancora in servizio i collegamenti notturni a lunga distanza che permettevano di muoversi agevolmente verso le città più importanti.

Almeno una volta al mese scendevamo da casa, la minuscola stazione di Santa Maria di Catanzaro di cui mio padre era capostazione, e salivamo su un treno per andare a trovare mio fratello che faceva l’università a Napoli. Partivamo – i miei genitori, mia sorella e io – intorno alle 21.00 e per una notte intera quel treno diventava la nostra casa.

Mamma preparava da mangiare e riempiva una intera valigia morbida di panini, uova sode, qualche volta anche del pollo (che freddo era anche più buono), il thermos col caffè che non capivo come facesse a rimanere caldo. Per l’occasione papà lucidava le scarpe di tutti e mamma ci faceva mettere i vestiti puliti, preferibilmente quelli nuovi, anche se poi mi ripeteva di non toccare nulla “ché il treno è sporco”.

Ogni vagone era diviso in scompartimenti da sei posti, arredati da specchi e copie su plastica di litografie di monumenti e vedute; le cappelliere e i portabagagli in ottone sopra i sedili erano molto capienti. La cosa davvero geniale di quei vagoni erano i sedili che, scorrendo in avanti, formavano un letto sul quale passare comodi la notte. Tiravamo la tendina sui vetri del corridoio e spegnevamo la luce.

Il ricordo di queste notti è tra i più nitidi e belli della mia infanzia: Rita e mamma che dormono, il profilo di papà che veglia vagamente illuminato dalla fioca luce blu di servizio, mentre fuori il mondo scorre avvolto dalla notte e il tempo è scandito da quel tu-tun tu-tun che ti entra nelle ossa. La felicità! Mi piaceva fantasticare sui luoghi attraversati, sulle persone che vivevano in quelle case dalle finestre illuminate con luci calde, chiedendomi se anche loro prendessero un treno di notte per andare a trovare qualcuno dall’altra parte del mondo.

Se di notte erano un monolocale su rotaia, di giorno quegli scompartimenti diventavano microcosmi nei quali entrare in contatto diretto con tutta l’umanità che vi passava. Mia madre attaccava bottone con tutti: i viaggi insieme a lei diventavano infinite sessioni di ascolto delle confessioni di perfetti sconosciuti che srotolavano senza freni la loro vita, consapevoli che non avrebbero mai più rivisto quella donna e il suo bambino.

Da adolescenti, su quegli stessi vagoni partivamo per lunghe traversate notturne per andare a vedere quei concerti che in Calabria neanche potevamo sognarci: il Monsters of Rock in Emilia-Romagna era un rito collettivo, quasi una transumanza per il numero di giovani scapigliati che affollavano il treno man mano che risaliva la Penisola. Ma una volta partimmo in tre per andare a vedere i Ramones al Rolling Stone di Milano: trenta ore complessive di viaggio per un’ora e quindici di concerto!

Quel microcosmo su rotaie era diventato lo spazio in cui essere sé stessi, il mezzo per scoprire il mondo e fare nuove esperienze. Ora di anni ne ho cinquanta e l’adolescenza è bella che andata, ma quella sensazione di euforia ogniqualvolta c’è da prendere una nave, caricare la moto e partire per mescolarsi a sconosciuti con usanze e parlate diverse c’è sempre.

Quella sensazione di euforia ogniqualvolta c’è da prendere una nave

Credo sia nata su quei vagoni la smania di nomadismo che mi porto dentro, quella che mi fa sentire a casa ovunque possa mettere in piedi una residenza effimera, che dura anche solo il tempo di una notte. Come questo traghetto per Tunisi, in cui spegniamo la luce della cabina e rimaniamo in silenzio con i nostri pensieri, avvolti dal riflesso pallido della luna sul mare mentre le onde che si infrangono sullo scafo scandiscono il tempo. La felicità.

Cose Che Capitano pubblicato su RoadBook 40