di Dario Tortora
Nelle pagine che seguono troverete un servizio in Tunisia con la mia firma e le sempre eccellenti foto di Totò.
Ero partito con l’intenzione di percorrere la famosa pista fatta costruire dall’ufficiale tedesco Rommel durante la Seconda guerra mondiale, individuando quella corretta fra le varie di cui ho sempre letto in giro.
Era giusta quella asfaltata con il triste monumento del mitra o quella in lastroni di cemento? Erano corrette entrambe, magari l’ennesimo trucco della “volpe del deserto” che ingannava gli Alleati facendo girare Panzer a caso fra rocce e sabbie?
Affascinante la figura di Rommel: il classico ufficiale di scuola prussiana, troppo patriottico, poco nazista; uno che si è trovato dalla parte sbagliata della storia e non ha avuto la prontezza o l’accortezza di vedere le cose come stavano, lasciando che il dovere militare si anteponesse a quello morale.
Non c’è nulla di più antipatico che fare il guastafeste, quello che si porta via il pallone per dispetto, ma purtroppo la pista di Rommel è una fandonia, come leggerete.
Eppure in Rete si trovano centinaia di persone che dicono di esserci state, è tutto un fiorire di selfie, di video, di racconti raffazzonati pubblicati senza riflettere. Nessuno di questi che citi una fonte certa, che abbia analizzato la questione, che si sia fatto una domanda in più; non serve immedesimarsi nel professor Barbero, basta un giro su Wikipedia.
Dice: cosa c’entra tutto questo con i viaggi in moto? C’entra, perché oggi troppa gente gira il mondo per dire “io c’ero” e non per capire, approfondire, anche solo per togliersi delle curiosità.
La pista di Rommel è una fandonia
Si riconoscono subito: sono quelli che iniziano ogni frase in prima persona singolare, incapaci di rinunciare a porsi al centro del mondo; sono quelli che anche di fronte al panorama più stupefacente devono mettere la propria faccia in mezzo alla foto, così da nascondere la bellezza del pianeta pur di poter esibire l’attestato di presenza.
Per costoro la parola d’ordine è sempre l’abbattimento di un limite: più veloce, più difficile, più lontano, più estremo, con un mezzo inadeguato, con un rottame. E non per il superamento di un limite interiore, come farebbe giustamente un atleta, ma per sfoggiare pubblicamente un risultato, il cui unico aspetto degno di nota è la ripetizione dell’io.
A me sembrano dei palestrati dell’ego, tutto sommato non molto diversi da quell’altro – coevo di Rommel – che si faceva ridicolmente fotografare a torso nudo nell’Agro Pontino.
Editoriale pubblicato su RoadBook 36