Appunti – La sposa turkmena

di Donato Nicoletti


Viaggiare è un esercizio che riesce soprattutto a chi ha una visione delle cose non sempre parallela all’ordinarietà, al ragionevole pragmatismo della ciclicità sociale. C’è chi si mette in strada senza patire il distacco dalla quotidianità, o il timore di navigare in un mare sconosciuto, perché l’imperscrutabilità dell’ignoto è più stimolante di qualsiasi certezza stanziale, di qualsivoglia sicurezza materiale.

Forse è una questione di preminenza caratteriale, come il non ritenere fondamentale accasarsi con una persona per dare consistenza ai propri giorni o per adeguarsi a una convenzione sociale. C’è infatti chi affronta questo ambito senza tribolazioni interiori, prendendo quello che viene – posto ovviamente che venga – senza ossessive paure di affrontare una ingloriosa e dequalificante quotidianità da numero dispari inferiore a tre.

Nell’italico stivale si è ormai consolidata una realtà avulsa dal condizionamento morale che vuole le persone di buona volontà accoppiarsi ufficialmente. Invece fuori dalla comfort zone occidentale il matrimonio è il punto fermo di ogni essere senziente e, in alcuni casi, una possibile via di fuga da una vita soggiogata alla semplice sussistenza, o peggio alla miseria.

Succede così che in Turkmenistan vengo ospitato in una casa di pastori; il capo famiglia indaga, legittimamente, questo ospite dall’aspetto bizzarro che all’alba dei cinquant’anni denuncia impunemente la sua condizione di signorino, non capacitandosi di come un suo coetaneo non abbia ancora trovato moglie e procreato come da norma.

Il mattino seguente, a colazione, mi fa accomodare di fianco alla maggiore delle sue tre figlie – con la metà dei miei anni – proponendomi di prenderla in sposa e portarla con me in Italia, dove potrebbe avere un destino migliore che non pascolare cammelli a Yerbent, nel deserto del Karakum.

Fuori dalla comfort zone occidentale il matrimonio è il punto fermo di ogni essere senziente

La proposta mi pietrifica, non solo per l’entità della stessa, ma anche per il fatto che un padre decida di rinunciare alla vicinanza della primogenita per garantirle un’esistenza che sia più vicina alla dignità che all’indigenza.

Un gesto di amore esternato con gli occhi lucidi di chi sa che davanti alla sua prediletta sta passando l’unico treno della vita e che sarebbe disposto a tutto pur di farla salire a bordo. Malauguratamente per la dignitosa famiglia turkmena, l’ospite che si sono tirati in casa ha ben altre idee per la testa, le quali viaggiano in direzione opposta, sia geografica che morale.

Non senza imbarazzo declino l’invito, accomiatandomi goffamente da quel desco di semplici portate ma ricco di nutrimento interiore, capace di farmi vagare per giorni con il senso di colpa per aver disilluso le speranze di chi ha avuto l’unica colpa di nascere nel posto sbagliato.

Cose Che Capitano pubblicato su RoadBook 38