Franco Picco torna alla Dakar a 65 anni

Il pilota diventato ormai da tempo una della icone mondiali più rappresentative dei grandi rally africani, il cui nome è scritto dal 2015 nel prestigioso albo d’oro FIM Cross-Country Rally Legend, ritorna alla gara che lo ha visto debuttare nel 1985.


L’annullamento causa pandemia della Africa Eco Race, di cui è testimonial per l’Italia, lo ha indotto a cambiare destinazione e prendere quindi la rotta dell’Arabia Saudita, dove dal 3 al 15 gennaio si correrà la leggendaria corsa che partì per la prima volta il 26 dicembre del 1978 dal Trocadero di Parigi e che ancora oggi attira magneticamente i motociclisti votati all’avventura. Lo abbiamo raggiunto nella sua casa di Sovizzo, sulle colline non lontano da Vicenza, per fargli qualche domanda prima del via.

FP: La notizia dell’annullamento dell’Africa Eco Race è arrivata quando avevo già preparato quasi tutto: avevo già comprato la moto, firmato alcuni contratti con gli sponsor più importanti e mi stavo preparando fisicamente.

Mi sarebbe dispiaciuto accantonare tutto per un anno, anche perché ci tenevo a questa tabella portanumero: è ormai tradizione che l’organizzatore mi assegni il numero pari ai miei anni, e questo 65 non me lo volevo perdere!

RB: La tua storia nei rally-raid è iniziata trentasei anni fa, con quel debutto che ti fruttò quasi a sorpresa un terzo posto all’arrivo sul lago Rosa: da ciò che possiamo intendere dalle tue parole l’entusiasmo e la passione paiono invariati, ma il pilota quanto è cambiato, e quanta è cambiata l’avventura?

FP: Ti dirò che l’entusiasmo prima di quel debutto nell’85 era forse minore di quanto lo sia oggi: Yamaha mi iscrisse alla corsa per allenarmi a guidare sulla sabbia. Ero pilota ufficiale nel motocross mondiale e per competere con i nordici sulle piste sabbiose dovevo fare pratica approfittando di quella gara nel deserto.

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Partii incuriosito ma non certo convinto di portare a casa un risultato. Poi però capii come funzionava la giostra e mi entusiasmai, e tanto!

Oggi ovviamente è cambiato molto per me: conta molto la mia esperienza, conta la mia voglia insaziabile di deserto e di quelle avventure nella sabbia che sono diventate la mia vita.

Capii come funzionava la giostra e mi entusiasmai

Al tempo si correva con una bussola fissata al manubrio, con l’ago che vibrava tanto da dover guidare comunque a intuito, si dormiva quando si dormiva (ma sempre poco), si mangiava un rancio militare, ti immergevi in quella bolla mitica che viaggiava nel deserto in un alone di leggenda, con le notizie che arrivavano a casa dai collegamenti radio (poi dai telefoni satellitari) e le agenzie a tarda sera.

Adesso tutta la tecnologia consente di controllare e seguire le corse nel deserto in tempo reale, e questo garantisce una maggiore sicurezza. Sulla moto c’è un cockpit di navigazione che può fare invidia a un aereo, mentre alle prime Dakar si fissavano i foglietti del road book con una pinza sul traversino del manubrio o sul serbatoio; la versione arrotolata arrivò dopo.

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E poi ci sono le recenti novità come l’obbligo dell’airbag integrato alla giacca che credo sia una cosa molto buona sempre sotto il profilo della sicurezza: io non l’ho mai usato e lo indosso per la prima volta in questa edizione, me lo fornisce la Klim che è mio sponsor personale per tutto l’abbigliamento.

Se mi chiedi quali sono i miei obiettivi per questa gara ti posso dire che per prima cosa punto a portarla a termine divertendomi e appassionandomi come sempre, poi non mi dispiacerebbe qualche bel piazzamento di tappa e qualche bella smanettata… senza esagerare perché, come dicono gli amici, “il vecio” è inossidabile ma ora deve correre con più testa.

Si fissavano i foglietti del road book con una pinza sul traversino del manubrio

RB: Dopo la parentesi sudamericana la Dakar torna su un terreno dove la navigazione appare più determinante: conterà molto la tua esperienza?

FP: Ho corso sei edizioni della gara in Sud America, una volta in quad e tutte le altre in moto: anche laggiù c’è un bel deserto con molta navigazione, ma molte tappe erano su piste ben tracciate, anche mutuate dai rally automobilistici, dove contava tenere spalancato a manetta e la navigazione era talvolta facilitata dalla presenza del pubblico che ti faceva intuire al volo la direzione; addirittura ad alcuni bivi capivi dove andare grazie alla presenza della polizia che regolava il traffico.

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È stata comunque una gara durissima, con in alcune giornate l’aggiunta dei problemi dovuti all’altitudine, ma diversa dalle gare in pieno deserto tutte navigate. In Arabia Saudita per me è come la prima Dakar: c’è tanta sabbia e da quello che so si navigherà abbastanza.

Oggi col GPS potrebbe sembrare tutto più facile, ma per seguire la traccia dribblando le dune più soffici, trovando i passaggi migliori e cercando di insabbiarsi il meno possibile serve sempre molta esperienza. Vedrò di mettere a frutto la mia, poi al ritorno vi racconterò.

RB: Hai corso anche con auto e quad ma, a differenza di tanti tuoi colleghi che sono passati dalle due alle quattro ruote, sei tornato alla moto: perché questa scelta?

FP: Con la moto te la cavi sempre, ti togli d’impaccio con meno fatica e poi so con precisione dove mettere le mani se devo fare una riparazione. È tutto più facile, più divertente. E poi la moto è la mia vita, quattro ruote sono troppe!

Quattro ruote sono troppe!

RB: Nella situazione attuale l’organizzazione della Dakar 2021 ha fissato un protocollo per garantire la tutela sanitaria dei partecipanti: ci puoi accennare qualcosa?

FP: La gara è organizzata dalla Amaury Sport Organisation (A.S.O.), che organizza molti eventi tra cui il Tour de France: proprio alla Grande Boucle hanno applicato un protocollo per tutelare nella cosiddetta “bolla” i corridori e tutta la carovana. Io ho effettuato il tampone prima della partenza e ne effettuerò uno dopo l’arrivo in Arabia Saudita, poi ce ne saranno altri periodici durante la gara. È un lavoro immenso per i sanitari al seguito, ma indispensabile per portare a termine un evento di questo genere in questo tempo di pandemia.

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RB: Hai scelto di correre nella categoria dove fai tutto da te, tecnicamente la Malle Moto, ma questo non complica le cose?

FP: Sì, ho deciso di correre facendomi manutenzione da solo, l’ho già fatto in passato: l’organizzazione ti porta la cassa con i tuoi ricambi e le gomme e tu ti arrangi a fare tutto. È una questione di organizzazione personale e di esperienza: devi sempre considerare che, dopo la fatica della tappa, dovrai dedicarti a pulire il filtro e, se va bene, fare tutte le manutenzioni ordinarie di giornata. Mi è capitato anche di dover smontare il motore per una rottura, ma ce l’ho quasi sempre fatta.

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Correre col meccanico che ti segue è ovviamente molto più comodo, ma in una corsa africana occorre che meccanico e pilota siano in perfetta simbiosi e non sempre accade, quindi ho deciso di fare da me pur mettendo in conto un carico maggiore alla sfida.

RB: Di tutto questo ci racconterai al ritorno in un articolo che ci hai promesso sulla rivista, ma sappiamo anche che uscirà un libro sulla tua leggenda…

FP: Con l’amico giornalista Massimo Tamburelli abbiamo avviato già da tempo il progetto di un libro sulle mie avventure. È anche quella un’impresa – sorride – perché è sempre difficile bloccarmi in poltrona per farmi raccontare gli aneddoti più strani, e poi i capitoli aumentano sempre gara dopo gara.

Siamo grandi amici da tempo, dal mio debutto alla Dakar, ma non dispone del… catalogo completo delle mie peripezie: per questa parte è entrato nel team un altro amico appassionato, Matteo Aramini, che abita in Veneto e ogni tanto viene a intervistarmi mentre traffico in officina. Presenteremo il libro ad aprile al Motor Bike Expo.

Franco Picco parteciperà alla Dakar 2021 in sella a una Husqvarna FR 450 Rally, a lui il grande in bocca al lupo da tutta la redazione di RoadBook!