Lorenzo Piolini, un ramingo in moto alla Dakar 2021

Da viaggiatore lento alle sabbie saudite, dal rifiuto di ogni programma alle sfide a cronometro. Attraversando il mondo in moto a varie velocità, Lorenzo Piolini capisce che la Dakar è un sogno realizzabile. Ma essere ammessi alla partecipazione è un viaggio a sé. Abbiamo fatto qualche domanda al motoviaggiatore che sognava la Dakar. E ci sta andando.

di Antonio Femia


Ci sono due buone notizie alla fine di quest’anno piuttosto turbolento: la prima è che nonostante tutto la Dakar 2021 si farà, la seconda è che tra i partecipanti italiani, oltre a veterani dell’ambiente, ci sarà un vero motoviaggiatore. Più che un pilota, infatti, Lorenzo Piolini è uno di quei rari personaggi che nella catena evolutiva rappresentano l’anello di congiunzione tra il motociclista girovago e il manico da rally raid. Tutti abbiamo sognato almeno una volta di far parte di quel circo di esseri sovrumani che navigano il deserto senza riferimenti visibili, ma tutti siamo ritornati coi piedi per terra alla prima occhiata al tachimetro. La Dakar, più di ogni altro rally, richiede infatti sforzi e capacità ben superiori a quelle richieste dal viaggio più avventuroso.

La storia di Lorenzo ci piace proprio perché era e rimane un viaggiatore in moto fino alla fibra più profonda: i primi viaggi scalcinati, un giro del mondo in 80 giorni, un anno senza tempo a zonzo per le Americhe. Ma è proprio nel suo girovagare che arriva la chiamata, quasi mistica, alla Dakar. Per coltivare la sua vocazione, il novizio si è affidato agli insegnamenti di Oscar Polli. Il veterano dei rally raid ha accettato di buon grado di mettere la sua esperienza venticinquennale a disposizione di uno scavezzacollo girovago nel suo percorso di preparazione, psicologica ancor prima che tecnica, al rally per definizione.

Abbiamo incontrato Lorenzo a poche settimane dalla partenza presso il suo “covo” – il Caravanserraglio, un po’ officina e un po’ lounge bar – in cui trovano posto i cimeli dei suoi viaggi. Il motto del locale (e del suo team) è Animo Ramingo e calza perfettamente alla descrizione del suo fondatore. Ci siamo andati per complimentarci e augurargli buona strada, ma non potevamo tornare a casa senza un’intervista per far conoscere ai lettori di RoadBook un personaggio dalla storia così affascinante.

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RB: I tuoi genitori ti hanno scarrozzato in giro per il mondo fin da quand’eri piccolo, ma a un certo punto hai iniziato a viaggiare in moto. Com’è cominciato tutto questo?

LP: Grazie a loro sono cresciuto vedendo posti che non sono così a portata di mano per tutti e per questo sarò loro sempre grato. Da bambino era normale passare le vacanze tra safari africani, avventure tra i boschi del Canada e spedizioni fra i templi indiani. Sognavo di compiere grandi avventure una volta cresciuto, ma non era facile accontentarsi con queste premesse.

Come per molti, la prima moto è arrivata a 14 anni: finalmente la libertà! Capii subito che era il mezzo perfetto per raggiungere quel risultato, a cui solo dopo ho dato il nome di viaggio. Ma il fisico è quello che è, perciò continuavo a cadere. Così, mentre gli amici col manico (e il fisico) iniziavano a dare di gas, la mia incoscienza da adolescente iniziava a lasciare spazio a una paura da adulto.

Assodato che guidando “come gli altri” non sarei andato da nessuna parte, alla decima frattura iniziai a cercare una tecnica che mi permettesse di stare in moto senza farmi male, trovandola nel viaggio. Iniziai subito e ricordo con malinconia il primo, da Milano a Champoluc su KTM 125 insieme al mio migliore amico, senza permesso dei genitori e senza la minima esperienza. Ma soprattutto finalmente senza limiti!

RB: Hai un curriculum da viaggiatore piuttosto corposo, da un giro del mondo in ottanta giorni a un’esperienza panamericana, viaggi antitetici in termini di ritmi e velocità. Parlaci un po’ di questi estremi e di quale ti faccia sentire più a tuo agio e perché.

LP: Tutto è iniziato senza regole né competenze. Appena maggiorenne iniziai a scorrazzare senza meta, ispirato per lo più dai nomi di posti stravaganti, affrontando in Vietnam il primo scontro con la cruda realtà. Ci arrivai con il biglietto di andata e nient’altro, comprai una moto scassata al mercato e partii verso sud. Niente cartina né GPS, niente casco… nel giro di due ore mi persi nelle campagne desolate, passando poi qualche giornata non proprio piacevole.

Fu la prima di tante (dis)avventure che mi diedero un minimo di esperienza e quel pizzico di coscienza necessarie a capire cosa stessi facendo. Mi mancava però uno schema generale, quel personalissimo libretto d’istruzioni utile a percepire l’entità di fatica, distanze, differenze e similitudini.

Da qui l’idea folgorante: faccio il giro del mondo in moto. Avevo 82 giorni liberi tra un esame e l’altro all’università e così è nato “Project 80”, un giro del mondo in moto in 80 giorni. È evidente che percorrere 27.000 km in così poco tempo non solo non è un’ideona ma non lascia neanche il tempo per i bisogni fisiologici. Lo sapevo ma volevo capire sulla mia pelle quanto è grande questa Terra e quanto sudore fosse necessario per percorrerla o, ancora, cosa si prova a disquisire nel giro di pochi giorni con gente di ogni parte del mondo, davanti a casa loro.

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È stato impegnativo ma rivelatore di un’insperata unità umana che, silenziosa e discreta, ci abbraccia e accomuna tutti. Mi sono fatto una confusa e personalissima cultura generale che avrei speso in futuro, chiarendomi due punti fondamentali: avrei viaggiato tutta la vita e non avrei più accettato limitazioni di tempo.

Finita l’università sono ripartito in moto, stavolta senza compromessi: niente sponsor né obblighi… ma anche senza soldi. Vendetti tutto quello che possedevo tranne la moto e imbarcai la Nina (un’Africa Twin RD 04) comprando per me un biglietto di sola andata per Santiago del Cile. Non sapevo come, dove o cosa, ma finalmente lo avrei fatto, e sarebbe stato grandioso. Senza più nulla in mano, avevo paradossalmente il controllo della mia vita.

Senza nulla in mano, avevo il controllo della mia vita

Perdonatemi per essermi dilungato, ma mi sono reso conto ora che, se c’è un prima e un dopo nei miei primi trent’anni, è sicuramente definito da questi due viaggi ed è stato il tempo la chiave del cambiamento. Mi trovo a mio agio nella totale assenza di pianificazione, nella possibilità di vagare senza una meta e quindi con la libertà di sceglierne una. È un concetto che poco si adatta alle responsabilità di un adulto e le dinamiche lavorative ma una soluzione c’è e ha a che fare con il road book, il cronometro e l’adrenalina.

RB: Si dice in giro che, mentre vagavi per il Sudamerica, ti sia imbucato a una Dakar. Raccontaci com’è andata davvero.

LP: No, basta con questa storia: l’ho raccontata così tante volte da odiarla! Scherzo, naturalmente. Il fatto è che, a parte prendermi qualche insulto, mi stavo anche giocando l’ammissione alla Dakar, quella vera.

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Diciamo che è stata la più genuina dimostrazione di amore per ciò che da sempre sogno. L’ho vissuta con il dovuto rispetto, paura e (non ci crederete) con la testa sulle spalle. Del resto sulla Dakar incombe da sempre il motto “Ce la farò, o morirò provandoci” che ho sempre sentito mio. Senza esagerare, eh!

RB: Corre anche voce che tu sia un discreto manico, e lo confermano le diverse vittorie che ti hanno permesso di partecipare alla Dakar 2021. Com’è che hai scoperto questa tua dote?

LP: Beh, se gira questa voce sono davvero lusingato! Credevo che l’imbucata del 2015 avrebbe appagato la mia curiosità. Tutto il contrario: ero dove volevo essere ma sentivo di dovermelo meritare.

Rientrato in Italia vinsi un concorso di scrittura e fotografia che mi permise di partecipare alla prima edizione della Gibraltar Race. Dopo una vita a sentirmi dire di non esagerare, andare piano, non tirare il motore, finalmente ero lì per dare il massimo, rendendomi conto di non essere proprio un fermone: evidentemente tutti quegli anni tra fango e sabbia mi avevano allenato più di quanto pensassi.

Era una bella sensazione non doversi preoccupare dei rifornimenti, di perdersi o farsi male da solo. Piccolo problema: non sapevo dove andare. Ero cresciuto bene come motociclista, ma ero un pessimo navigatore. Fu un brutto colpo a livello psicologico: andavo più forte di quanto avessi mai sperato ma dovevo sempre fermarmi per seguire qualcuno, perdendo tutto il vantaggio al primo bivio.

Decisi quindi di contattare una vecchia conoscenza, il pluridakariano Oscar Polli, affidandomi alla guida del campione dei rally raid per affrontare la lunga e tortuosa scalata verso la Dakar. Oscar è diventato il mio mentore e allenatore per questo progetto che, oltre a grandi sforzi, richiede serietà, regole precise e disciplina costante. Non proprio il mio pane.

Una delle regole per essere ammessi è aver partecipato con risultati positivi in varie gare internazionali. Perciò da ramingo qual ero, ho dovuto considerare il pilota dentro di me. Non mi piace svegliarmi presto per gli allenamenti, odio il fitness e non sono mai stato competitivo. Ma per la Dakar questo e altro.

Tutti quegli anni tra fango e sabbia mi avevano allenato più di quanto pensassi

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Partecipo al Tuareg Rallye del 2019: prima gara, prima vittoria. È andata bene, ma il confronto con gli altri mi ha fatto capire che ho sbagliato molto e rischiato troppo. C’era bisogno di cambiare mentalità, perciò basta col ramingo e diamo spazio al pilota.

Mi è passata la paura delle gare e finalmente la navigazione, da ostacolo qual era, è diventata uno strumento per andare più forte e in sicurezza. Come nei viaggi, ho man mano alzato l’asticella partecipando al Transanatolia contro avversari immensi e poi all’Andalucía Rally di quest’anno, prima tappa del campionato mondiale: di nuovo altro livello e tanto da imparare.

RB: Ma quindi il tuo sogno è quello di fare il pilota?

LP: No, tutt’altro: io non voglio fare il pilota, voglio fare la Dakar! E c’è una bella differenza. Questo progetto è una sfida personale, la diretta conseguenza di ciò che faccio da sempre e che coincide con la mia passione: guidare in solitaria attraverso i terreni più impervi, esplorare ogni dove, sfidare me stesso per conoscermi e imparare a contare solo sulle mie forze e sulla mia testa.

Questo spirito mi ha portato a esperire buona parte del caleidoscopio umano, con situazioni prossime all’incredibile da cui, avventure o disavventure che fossero, sono sempre uscito in qualche modo. Non sono impazzito, svegliandomi un giorno convinto di essere un pilota professionista. Continuo a vivere e giocare come ho sempre fatto e stavolta lo faccio a cronometro. Mi considero un avventuriero amante delle sfide, la prossima è la Dakar 2021.

RB: Come ti stai preparando al rally di tutti i rally? Quali pensi siano i tuoi punti forti? E le debolezze?

LP: L’argomento è forse uno dei più vasti della disciplina. Ognuno ha la sua teoria ma siamo tutti drasticamente diversi, perciò la miglior cosa da fare è pianificare una preparazione personalizzata. Mi sto preparando al rally dei rally da 25 anni, cioè da quando vidi Fabrizio Meoni al TG1. Sembra una battuta, ma ci credo veramente. Per me la Dakar la devi avere in testa da sempre: non è una gara, è uno stile di vita. Ho deciso seriamente di partecipare cinque anni prima dell’iscrizione, intendo tutto il periodo di avvicinamento, raccolta informazioni e contatti. La preparazione tecnica vera e propria ha occupato invece gli ultimi tre anni con sessioni di enduro e pista da cross almeno tre volte a settimana, insieme al fitness quando possibile.

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Oltre a ciò che si può fare a casa, l’esperienza africana è insostituibile per vari motivi. In primis perché le dune sono dune e, se vuoi correre, devi mangiartele; poi perché navigare in mezzo al deserto è un’esperienza unica che va provata, come le lunghe ore in solitaria a martellare sui pistoni sabbiosi. E anche l’occhio va abituato. Puoi essere anche l’endurista più cazzuto del mondo, ma se hai medie di 40km/h in ogni uscita, guidare una moto a 170km/h per ore diventa un bel problema.

A partire da gennaio 2020 è iniziato l’allenamento intensivo: diversi ritiri in Italia e all’estero, fino a cinque allenamenti settimanali in pista da cross, preparatore atletico una volta a settimana e varie attività di fitness ogni giorno. I miei punti forti sono di certo le esperienze passate, la conoscenza di me stesso e dei miei limiti, la confidenza con la solitudine e l’arte di sapersi arrangiare, uniti alla passione infinita e all’amore incondizionato per questa visione del mondo perché, lo ripeto, la Dakar è molto più di una semplice gara. Il punto debole è senza dubbio il fisico e la corretta alimentazione che ne deriva. Temo seriamente di svenire a metà tappa, dato che peso 60 kg e non ho praticamente riserve di energia. Inoltre c’è anche un po’ di inesperienza generale nel campo delle gare. In pratica: testa OK, fisico vedremo…

RB: Cosa ti aspetti da quest’avventura?

LP: Nulla. Cerco di pensarci poco, tanto è impossibile immedesimarsi adesso. Di sicuro sarà durissima, lunghissima, bellissima. Di cosa si tratti più o meno lo so, ma non ho idea di come reagirò io. Ci vado apposta, poi vi saprò dire. Di sicuro saranno due settimane da raccontare.