Iraq in moto: oltre il confine

Daniele, irrequieto e curioso overlander, ci racconta della sua ultima esperienza di vita a due ruote lungo le rotte del Medio Oriente. Un viaggio in solitaria oltre il confine, fino alle complicate e incerte terre del Kurdistan iracheno.

di Daniele Donin


Cosa pensi quando il tuo capo ti dice che, per qualche strana ragione, le sue ferie sono saltate e, se ne hai voglia, puoi prenderti quel tempo al posto suo? Che effettivamente non è una brutta cosa, almeno per me. Allora la sera stessa recuperi la moto, cambi olio e filtri, dai una pulita alle candele e controlli liquidi e pressione delle gomme: il resto è già a posto.

Di notte non dormi, perché non sai dove vuoi andare: non devi per forza capire, ti basta ascoltare la strada che ti chiama dal profondo dell’anima, che ti chiede solo una direzione, non una meta, non una destinazione. La direzione non è solo quella fisica, ma anche, se non soprattutto, quella del tuo confine, che decidi di affrontare quando ti senti forte abbastanza per superarlo. Superare i tuoi dubbi, le tue paure: paura di andare oltre, di osare, di fallire. Ma l’unico vero fallimento sarebbe continuare a vivere senza ascoltare quella voce: è giunto, allora, il tempo di partire.

Verso i Balcani, poi chissà

Alle cinque del mattino c’è già luce e allora non riesco più ad aspettare: prendo il passaporto, lo zaino che ho già preparato ed esco di casa. L’aria è fresca e profuma d’estate, non ho pensieri, né dubbi: devo solo salire in sella alla moto, girare la chiave, staccare i piedi da terra e lasciarmi portare da lei. Lascio una Milano deserta e silenziosa e punto la prua verso levante: andrò a est, verso i Balcani, poi da lì chissà. Mi fermo dopo il tramonto che sono quasi a Belgrado: il tempo di riposare qualche ora e poi riparto verso Niš.

Traccio col pensiero un percorso che mi porti sulle sponde del Mar Nero, risalendo magari verso Odessa. Invece, un lampo squarcia l’orizzonte burrascoso del mio animo. La mia parte razionale dice che è troppo imprudente, che sarebbe inutile anche solo avvicinarsi. Ma l’idea non molla anzi, si incunea come il vento freddo d’inverno tra i vestiti. E allora sorrido nel casco e accetto la sfida, anche se l’idea ha un nome pericoloso: si chiama Iraq.

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A Niš, l’antica Naissus, nonché città natale dell’imperatore Costantino, mi fermo per mangiare un boccone, passeggiando tra le mura della fortezza turca e l’hammam, e poi riprendo a macinare strada, verso Sofia. Il mio orizzonte sta chiamando, talmente forte che decido di superare Istanbul già questa notte. Non mi importa dove arriverò, ma voglio lasciarmi alle spalle i suoi 15 milioni di abitanti, e soprattutto le loro auto.

Mi fermo oltre il Bosforo, a riposare in una locanda lungo la statale: poi, l’indomani, si continua. Sfilo veloce attraverso una Turchia sempre più calda, continuando verso Adana e Gaziantep, verso quel confine che lentamente si avvicina. Mettendo da parte la razionalità, guido anche di notte, al fresco: non mi importa, vado più piano e sto attento. Vorrei proseguire fino all’alba in questa notte stellata, ma ci pensa la strada a rallentarmi. Nel fare benzina mi accorgo che il piede tocca terra troppo velocemente. Lo so già: ho bucato. Poco male, ho il necessario e sono in un’area di servizio. Ma vendo la pelle dell’orso troppo presto, perché la gomma non si gonfia.

Sorrido nel casco e accetto la sfida, anche se l’idea ha un nome pericoloso: si chiama Iraq

Non si tratta della valvola, ma di un foro largo quanto un dito. Sveglio il vulkanizer che se ne sta dormendo su una tavola di legno, ma non riusciamo a rattoppare il buco: domani, con la luce, penserò a una soluzione. Mi butto a dormire su un tavolaccio dell’officina. Nel rumoroso dormiveglia capisco che voler perseguire un obiettivo, ambire a una meta, significa proiettare tutto me stesso verso quel risultato, e il volerci arrivare cancella tutta la bellezza dei momenti e degli attimi che compongono il percorso che ti ci porta.

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Focalizzarsi sul risultato finale fa perdere la possibilità di fermarsi a respirare, di avere la consapevolezza di ciò che si sta vivendo. Invece, adesso, cerco di farmi portare dalla strada e dai suoi ritmi, facendo decidere a lei.

Il barbiere di Nizip

Arriva l’alba di una giornata che si preannuncia lunga. Decido di tappare, provvisoriamente, il buco con la stringa ripiegata e di avvitarci dentro due grosse viti: gonfio la gomma e parto veloce per percorrere i trenta chilometri più agghiaccianti della mia vita. Nonostante i quaranta gradi sudo freddo per quasi un’ora, ma so che finché la ruota gira non dovrebbe perdere troppa pressione.

A Nizip incontro Mustafa, un barbiere che, senza perdere troppo tempo, si attacca prima al telefono e poi mi accompagna dal gommista che ha trovato: prima di pranzo sono già pronto a ripartire. Ma non lo faccio, perché una voce interiore mi dice: “Daniele fermati, goditi il Viaggio”.

Così, la fretta svanisce in un attimo e mi fermo a pranzare con Mustafa e i suoi amici nel retro di un negozio. Il pasto è frugale e semplice, ma il suo gusto è unico e sa di umanità, di generosità, di amicizia tra persone diverse provenienti da mondi lontani. Mustafa mastica un po’ di inglese, con cui scambiamo due parole su quello che sta succedendo a qualche centinaio di chilometri da qui, in Siria. Mustafa nota la mia barba lunga e si offre di radermela: accetto volentieri il suo gesto di amicizia, anche perché, senza di lui, probabilmente non sarei potuto ripartire.

Daniele fermati, goditi il Viaggio

Mi rimetto in strada verso Zakho, l’unico valico aperto con l’Iraq. Raggiungo la dogana turca di Habur che è quasi buio. Il posto è molto affollato, quindi mi butto nella mischia burocratica che mi inghiotte con i primi documenti da compilare. E di carte ce n’è per tutti i gusti: dall’immigrazione, ai controlli sulla moto.

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Dopo due ore, mi fanno cenno che posso andare. Risalgo in moto con il cuore che batte e, con gli occhi lucidi, supero il confine: sono in Iraq. Proseguo al buio verso Zakho, dove mi infilo nel primo albergo che trovo. Non mi sembra il caso di dormire fuori, almeno non qui. Intanto traccio un itinerario di massima, verso Erbil, perché voglio visitarne la cittadella. Da lì proverò a scendere verso Baghdad, anche se penso possa essere troppo pericoloso.

L’indomani muovo in direzione Dahūk: si viaggia bene e l’aria non è ancora rovente. Quello che sfila ai lati dell’asfalto è il Kurdistan, una regione autonoma che è stata teatro di continui scontri tra il Califfato Islamico da un lato e le forze regolari della Repubblica, affiancate dai peshmerga, dall’altro.

Qui se le sono suonate pesantemente, tanto che l’esercito iracheno ha lasciato il campo, abbandonando i curdi al loro destino, che hanno saputo ribaltare grazie alla loro forza d’animo – peshmerga significa “votato alla morte” – e alle bombe sganciate dall’aviazione statunitense. Con la vittoria, i curdi hanno rivendicato nuovi territori, come il bacino della diga di Mosul e l’area industriale di Kirkuk, scatenando l’ira di Baghdad e l’indolenza del resto del mondo. Alla fine ne sono venuti a capo ripristinando, non senza violenza, i vecchi confini.

Arrivo a Erbil dopo essermi divincolato tra decine di taxi imbottigliati, ritrovandomi nella piazza principale ai piedi della cittadella fortificata. Non so descrivere la sensazione che mi pervade il corpo mentre poso i piedi per terra. L’emozione mi travolge completamente, lasciandomi immobile a riprendere fiato. In questi istanti riaffiorano tutte le immagini che mi hanno portato fin qui: dal lavoro a Niš, da Nizip a Erbil. La luce del sole si riflette sulle mura e sui torrioni, definendo anche i particolari dei balconi e delle finestre. Guardo il cielo azzurro, e per un attimo pare che la mia mente assopisca i rumori del traffico. E respiro.

L’emozione mi travolge completamente, lasciandomi immobile

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Il salvatore della Storia

Trovo una sistemazione nel quartiere cristiano di Ankawa, perché domani vorrei incontrare una persona. Tempo fa lessi di un sacerdote domenicano che salvò, letteralmente, migliaia di libri dalla furia ottusa dell’ISIS. Ho recuperato un suo contatto in rete e gli ho scritto, raccontandogli un po’ di me, e Padre Najeeb Michael si è detto disponibile a incontrarmi. Giro tra le viuzze di Ankawa, finché trovo il suo centro di ricerca e restauro.

Qui incontro una persona semplice, giovanile e molto sciolta, che ha fatto della sua vita una missione, quella di salvare e poi restaurare migliaia di libri antichi, dalla medicina alla religione, dal teatro alla matematica, che ora si trovano in questo luogo incredibile dove l’odore della carta impregna ogni cosa.

Mi illustra i processi di restauro e di digitalizzazione dei documenti e mi racconta della rocambolesca fuga da Mosul a bordo di un camion, tre giorni prima dell’arrivo delle milizie del Califfato. È sereno Najeeb, nei suoi occhi c’è la luce di chi ha fatto davvero qualcosa di grande per l’umanità, digitalizzando i documenti e condividendoli con le biblioteche di mezzo mondo, dalla California al Giappone.

Esco dal centro con qualcosa di nuovo, forse un’illusione. Perché quest’uomo semplicissimo mi ha trasmesso emozioni di speranza, qui, in questa terra maledetta da secoli di odio, dove la vita non sempre è un diritto. Riparto verso sud con una parte di me che spera di non passare i posti di blocco dell’esercito: e le mie preghiere vengono esaudite.

A sud di Erbil vengo fermato e rispedito verso nord. Capisco dai gesti dei militari che non si può transitare senza permesso. Non insisto, né faccio domande: Baghdad dovrà aspettare ancora.

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Faccio inversione e proseguo a est, verso il lago Dukan e Sulaymaniyya. Le curve risalgono colline aride, dove tutto tende alla monocromia, quella della polvere, fino a culminare su un passo che mi regala una perla azzurra nel grigiore delle sabbie. Il lago Dukan compare in mezzo a montagne arse dal sole del deserto.

Mi siedo su una roccia ad ammirare, in silenzio, questo panorama che tremola nell’aria torrida, mentre il vento caldo mi accarezza il viso e agita i pensieri. A Sulaymaniyya ci arrivo nel pomeriggio, in tempo per un buon tè. Una breve visita e mi rimetto in strada, verso Erbil. Prima di lasciare l’Iraq, però, c’è un altro posto che vorrei visitare: è la Valle di Lalish, luogo sacro per gli yazidi, un’antichissima comunità religiosa che vive tra queste montagne.

Raggiungo Lalish in mattinata: una volta lasciata la moto, devo togliere le scarpe e camminare scalzo lungo la via sacra che porta al mausoleo del santo Adi ibn Mustafa, per il quale ogni anno si celebra un pellegrinaggio di sei giorni. Un ragazzo, che parla inglese, si offre di farmi da guida per qualche dinaro. Daran, questo il suo nome, mi racconta la tragica storia del suo popolo, perseguitato dal mondo islamico per il suo credo considerato eretico. Nonostante deportazioni e stermini, il popolo yazida è sopravvissuto conservando tenacemente la sua storia e le sue tradizioni, facendo di Lalish il suo fulcro.

Rientrerò in Europa attraversando nuovamente la Turchia, ma senza fretta: quando si è in ballo bisogna ballare. Perciò, invece di dirigermi diretto in Italia, decido di assecondare l’intuizione inziale e deviare verso l’Ucraina, per visitare finalmente Odessa. Questa, però, è un’altra storia.