Appunti – Provaci lo stesso

di Antonio Femia


Il jazz e i viaggi avventurosi hanno una cosa in comune: l’improvvisazione. Ne è un buon esempio un episodio accaduto a Keith Jarrett a metà degli anni ’70, in occasione di un concerto in Germania.

Appena arrivato a Colonia il suo umore non è dei migliori, e vorrei vedere: una tirata di settecento chilometri da Losanna su una Renault 4, insieme al suo impresario per una data di straforo al Teatro dell’Opera. Nonostante i biglietti della serata – organizzata da un’inesperta Vera Brandes, neanche ventenne – siano andati a ruba, Keith Jarrett ha decisamente la luna storta: ha mal di schiena da giorni, è stanco e affamato. Ma è al suo arrivo in teatro che si ricorda di quante poche gioie riservi la vita. Aveva richiesto espressamente un Imperial Bösendorfer 290 di nove piedi ed effettivamente ci trova un pianoforte di quella marca.

Peccato però che si tratti di quello usato per le prove del coro, un Baby Grand di un metro e mezzo scordato e con un pedale fuori uso. A questo punto Jarrett s’incazza seriamente e si esibisce in una delle sue celebri piazzate. Del resto come dargli torto? Il tour solista del 1973 ha per lui un valore quasi terapeutico: segna il ritorno all’amato pianoforte acustico dopo gli anni delle odiate tastiere elettriche nell’orchestra di Miles Davis.

In fondo se la merita un po’ di tranquillità, perché deve essere tutto così difficile? E perché si è fidato di un’organizzatrice così inesperta per una data tanto importante? La ragazzina con le smanie da promoter è mortificata ma, con tutta la buona volontà, non riesce a trovare un pianoforte decente in tempo utile per la serata. L’unica strada praticabile è quella di far accordare alla meno peggio lo strumento ai tecnici del teatro, che però nulla possono fare per la pedaliera.

A teatro ormai pieno l’impresario intima a Vera di mandare via tutti e annullare il concerto, ché mica siamo qui a incartare torroni. Keith, dopo aver fissato il vuoto per un tempo indefinito, si rivolge alla ragazza in lacrime rassicurandola che suonerà ma solo per farle un favore personale.

Ormai non ci sperava più nessuno, neanche il tecnico del suono che ha piazzato giusto due microfoni su quel rottame di pianoforte. Sono le 23:30 quando Keith Jarrett sale sul palco, con il pubblico ormai decisamente spazientito e mal disposto.

Con queste premesse viene difficile pensare che l’improvvisazione di un’ora che segue verrà ricordata come uno dei momenti più alti della musica contemporanea. Poche timide note all’inizio, un crescendo dolce e selvaggio che si perde tra blues che non è blues, gospel che tale non è e reminiscenze di musica classica diventata qualcos’altro. Un flusso di coscienza che diventa viaggio tra mondi sonori. La registrazione della serata diventerà “The Köln Concert”, il più famoso album di jazz solo con oltre tre milioni e mezzo di copie vendute.

Un flusso di coscienza che diventa viaggio tra mondi sonori

Ora pensate a tutte le volte che avete rinunciato a un viaggio o a un’esperienza perché non avevate gli strumenti giusti: la moto abbastanza potente, le valigie capienti, l’abbigliamento ideale; oppure a quando avete cambiato strada perché non sapevate molto della zona e non avevate studiato abbastanza.

Succede tutte le volte che diciamo no a Vera Brandes, che diamo retta al nostro impresario e lasciamo perdere: ogni volta che non improvvisiamo con quel poco che abbiamo rischiamo di perderci il nostro Concerto di Colonia.

Certo bisogna essere padroni della materia (siamo partiti da Keith Jarrett!) e non è detto che andrà necessariamente bene, anzi tutto depone a nostro sfavore. Però sono proprio la paura di sbagliare e le poche probabilità di riuscita a tenere i sensi accesi: se sappiamo mettere in gioco la curiosità che ci spinge, qualcosa di buono per strada la troviamo sempre. L’importante è muoversi, hai visto mai?

Cose Che Capitano pubblicato su RoadBook 34