di Antonio Femia
Spesso si fa una distinzione, piuttosto ingenua, tra turisti e viaggiatori: pigri, grezzi e incapaci di autosufficienza i primi quanto scaltri, avventurosi e pronti a tutto gli altri.
Va da sé che tutti ci sentiamo parte della seconda categoria e tendiamo, chi più chi meno, a identificare il turista come un fruitore superficiale di luoghi altrui, interessato solo agli aspetti più frivoli e folcloristici di un Paese, un Bancomat con le gambe attratto dalle facciate di cartapesta allestite per i gonzi come lui nelle mete più gettonate.
Il sedicente viaggiatore è convinto di conoscere davvero i luoghi che visita, ingannato dall’illusione di entrare a stretto contatto con le culture e le usanze locali perché si muove con l’essenziale e rifiuta le comodità; a lui non la si fa: non cade nelle trappole per turisti e ha visto con i suoi occhi la verità che i poteri forti ci tengono nascosta. Basta invertire il punto di vista per capire dove sta il limite: se un forestiero vi dicesse che conosce bene l’Italia perché ci ha passato due settimane, voi non gli ridereste in faccia?
L’avventura è non conoscere dove finirà la giornata e cosa accadrà, ma ormai sappiamo più o meno cosa aspettarci e ovunque nel mondo sono pronti ad accoglierci. La democratizzazione del viaggio ci ha resi tutti turisti: sono finiti i tempi di Bruce Chatwin o di Robert Edison Fulton Jr, quando attraversare terre lontane era quasi un tuffo nell’ignoto.
Oggi, quando parti a fare un giro del mondo in moto, ti senti Enea in cerca di nuove terre con una storia unica da raccontare ai posteri, ma dopo tre giorni ti accorgi di essere solo uno dei tanti che cerca di riempire il suo passaggio su questa terra nel miglior modo possibile.
Non ho citato a caso l’eroe virgiliano: le nostre aspettative e la percezione dell’esperienza di scoperta sono tarate sugli archetipi alla base del “viaggio dell’eroe”, la struttura narrativa che ritroviamo un po’ ovunque dal ciclo di Gilgamesh ad Avatar: la chiamata a lasciare il proprio mondo, il superamento delle prove, il ritorno a casa dopo la rinascita.
L’avventura è non conoscere dove finirà la giornata e cosa accadrà
È ancora oggi ciò che viviamo ogni volta che partiamo per un’avventura: il viaggio continua a essere il miglior strumento di autoevoluzione e di conoscenza di quanto esiste al di fuori del proprio ordinario.
Ma rispetto a cent’anni fa non si tratta più di un’esperienza unica perché il turismo è diventato un’industria con tutte le conseguenze del caso; un fenomeno che ha stravolto e banalizzato usanze e culture, trasformato città e villaggi in contenitori di residenti temporanei. Il turismo ha cambiato il mondo, tutto, dalla Valle dell’Omo alle steppe dell’Asia centrale passando per i Quartieri Spagnoli di Napoli.
Il turismo è il male? Forse, ma è un male con molti risvolti positivi: educa le masse a conoscere l’altro da sé, è un antidoto alla xenofobia, dona valore a singolarità che altrimenti verrebbero spazzate via e permette anche ai più deboli di avere una fonte di reddito legale.
Un tempo si organizzavano battute di caccia e safari, oggi si paga per ammirare gli stessi animali da vivi; i dialetti e le usanze popolari di cui un tempo ci si vergognava sono oggi temi portanti di festival e rassegne culturali sull’identità. E poco importa che sia marketing della nostalgia (dei tempi che furono, di qualcosa che non si è mai vissuto) perché il mondo senza viaggi e viaggiatori sarebbe molto meno bello e più difficile da vivere.
Se l’industria è predatoria, non è detto che debbano esserlo i suoi fruitori: dormire e mangiare presso piccole strutture familiari, ingaggiare una guida locale che ci racconti la storia del luogo, comprare souvenir artigianali, farsi aiutare da un bambino di strada e riconoscergli una mancia, senza fare elemosina.
Non cambieremo il mondo e saremo ancora turisti, ma con un po’ di etica e la consapevolezza che il nostro viaggio dell’eroe è una questione strettamente privata.
Cose Che Capitano pubblicato su RoadBook 37