In prova: Royal Enfield Bear 650

Royal Enfield ha presentato alla stampa la nuova Bear 650. L’abbiamo provata su un percorso fantastico nelle montagne sopra Savona, tra il passo del Faiallo e il colle del Giovo, e ci è piaciuta più di quanto ci aspettassimo.

di Mario Ciaccia


La nuova scrambler indiana da 650 cc è molto più di una Interceptor con il manubrio da fuoristrada, soprattutto perché ha una ciclistica diversa. Se non conosci certe storie, però, non puoi capire perché l’abbiano chiamata “Orso” e perché abbia delle tabelle da gara riportanti il numero 249.

Big Bear Run è il nome di una storica gara di fuoristrada che si è disputata, in forma ufficiale, dal 1921 al 1963. Le prime edizioni partivano dalla periferia est di Los Angeles e raggiungevano Big Bear, a quota 2.500 m, dopo avere attraversato il deserto del Mojave.

Non c’era un percorso predefinito: dovevi essere il più veloce ma anche il più abile a trovare la via migliore. Poi venne creato un tracciato obbligato. La distanza da percorrere variava tra i 230 e i 300 km, gli iscritti al via erano tra i 500 e gli 800 e all’arrivo ne arrivavano poco più di cento.

La gara era molto sentita e vi correvano “eroi nazionali” come Bud Ekins, la controfigura di Steve McQueen. Uno dei team più forti era il californiano Checkers Motorcycle Club, i cui piloti erano fortissimi, lottavano per la vittoria ed erano veterani delle gare nel deserto. La loro divisa era una giacca a scacchi.

Royal Enfield Bear 650: l’origine del nome

Perché ve ne sto parlando? La Royal Enfield Bear 650 si chiama così in onore dell’edizione 1960 di questa gara, che misurava 250 km e aveva 765 piloti al via. Tra loro c’era un ragazzino di nome Eddie Mulder che aveva appena 16 anni ma guidava come un demonio.

Chiese ai Checkers di poter correre con loro: questi gli dissero di sì perché era veramente bravo ma un po’ non se la sentivano di farsi rappresentare da un sedicenne, per cui gli diedero una giacca con la metà sinistra a scacchi e la metà destra con su un punto interrogativo, come a dire: sarai degno di noi?

Sì, era degno. Si presentò al via con una Royal Enfield Fury 500 monocilindrica con su il numero 249 e partì fortissimo, entrando subito nei primi venti. Mentre era tredicesimo uscì di strada, finì in una scarpata e ripartì tra gli ultimi, con il manubrio piegato, una pedana rotta e uno dei due ammortizzatori posteriori fuori uso.

Ma riprese a guidare come se niente fosse, rimontò tutti i concorrenti uno a uno e colse una delle vittorie più impressionanti e significative della storia del fuoristrada. Diventò per tutti Fast Eddie (da non confondere con Fast Freddie Spencer) e vinse tante altre gare.

Ecco che cosa c’è dietro la Bear 650 di Royal Enfield, il suo nome, le sue tabelle con scritto 249. Perciò era doveroso che io la provassi indossando una giacca a scacchi, capite?

In realtà molta gente non solo non conosce la storia di Fast Eddie alla Big Bear, ma liquida la Royal Enfield come una Casa indiana che fa moto economiche ispirate alle inglesi anni Sessanta, come del resto fanno tante cinesi.

In realtà qui abbiamo una vera storia alle spalle, perché si trattava di una delle più prestigiose industrie motociclistiche inglesi, con moto all’avanguardia.

La Constellation 700 del 1958 e la Interceptor 750 del ’62, entrambe bicilindriche in linea con perni di biella a 360° (quindi gli scoppi si succedevano con pause regolari), sono state tra le moto più sportive della loro epoca.

Inoltre la Bullet del 1948, prodotta ininterrottamente fino al 2020, è stata una delle prime moto al mondo a essere dotata di sospensione posteriore telescopica di serie, soluzione testata vittoriosamente nelle gare di cross.

Il problema è che la Casa madre fallì nel 1971 a causa della concorrenza giapponese mentre la succursale indiana, fondata nel 1956, andava alla grande. Questa ha prodotto per decenni la sola Bullet monocilindrica da 350 e 500 cc, prima di iniziare a rinnovare la gamma con la Himalayan nel 2015. Per questo molti centauri non amanti degli approfondimenti bollano la Royal Enfield come Casa indiana economica.

La Bear 650 non è strettamente imparentata con la moto di Mulder che vinse la Big Bear – perché è una bicilindrica da 650 cc – e non è neanche molto simile alla Interceptor del ‘62, visto che è figlia di un progetto tutto nuovo anche se, esteticamente, il richiamo è evidente.

L’attuale bicilindrico, comparso per la prima volta sulla Interceptor 650 del 2019, è fasato a 270°, quindi con due scoppi vicini e una pausa, ha la testa monoalbero a 4 valvole per cilindro, il raffreddamento ad aria e olio, l’avviamento elettrico, l’accensione e l’iniezione elettronica.

Cosa c’è di nuovo nella Royal Enfield Bear 650

La Bear deriva quindi dalla Interceptor del 2019 ma, rispetto a questa, presenta più modifiche di quante ce ne aspettassimo. In generale la ricetta rapida per le scrambler consiste nel cambiare il manubrio e lo scarico, ma qua c’è di più. I cerchi non sono più da 18”, ma l’anteriore cresce a 19” e il posteriore cala a 17”.

Le sospensioni hanno una maggiore escursione: la forcella è completamente diversa, è una Showa rovesciata da 43 mm e 130 mm di corsa (contro i 110 mm della forcella tradizionale della Interceptor) mentre la coppia di ammortizzatori adesso permette un’escursione alla ruota di 115 mm al posto di 88 mm.

Non sono valori da vera moto da fuoristrada, ma la rendono più adatta agli sterrati rispetto alla sorella. La luce a terra si alza meno del previsto, da 173 a 184 mm mentre l’altezza da terra della sella passa da 804 a 830 mm.

Tra avantreno e retrotreno quello che si è alzato di più è il posteriore, per cui geometricamente parlando abbiamo una moto con uno sterzo più verticale nonostante sia stata montata una ruota anteriore di diametro maggiore.

Il disegno dei tasselli degli pneumatici ricorda quello dei Pirelli Scorpion Rally STR, molto diffusi come primo equipaggiamento sulle maxi enduro, ma in realtà sono i Nylorex di MRF, che è il più importante produttore indiano.

L’impianto di scarico due-in-due adesso è un due-in-uno con il terminale più corto. Solo per questa modifica la coppia massima sarebbe cresciuta di 4 Nm – da 52 a 5.150 giri a 56,5 allo stesso regime – mentre la potenza massima resta a quota 47 CV (a 7.150 giri contro 7.250), per mantenere la possibilità di guidarla con la patente A2. I rapporti sono stati accorciati, quindi sulla carta la Bear dovrebbe essere più brillante nel misto.

Togliere un terminale di scarico fa risparmiare peso, ma ci sono altre parti più pesanti (come le sospensioni) e, nella lotta tra guadagno di qua e perdo di là, alla fine la Bear pesa due kg dichiarati meno della Interceptor: 214 kg a secco contro 216. Il serbatoio non varia e mantiene la capacità di 13,7 litri.

Rispetto alla Interceptor cambia anche la strumentazione, che è lo stesso tondo digitale della Himalayan 451 che consente il dialogo con lo smartphone mediante l’apposita app che offre, tra le altre cose, la possibilità di navigare con Google Maps.

Troviamo strano questo cambio di stile rispetto ai due strumenti classici della Interceptor, anche perché non è motivato da un’eventuale look più moderno della Bear 650.

Lo strumento è montato leggermente a sinistra per lasciare spazio alla chiave di avviamento: è un disassamento che il cervello non percepisce come “estetico” (come i fari della BMW R 1150 GS, per capirci), per cui prima di farci l’abitudine hai la sensazione che sia stato montato male.

I comandi al manubrio hanno la rassicurante semplicità di quando una moto non dispone di sofisticherie elettroniche come mappe, controllo di trazione, riding mode, controllo freno motore, ecc. però abbiamo un comodo joystick a quattro vie (a sinistra, accanto a quello del clacson) che permette di “viaggiare” dentro la strumentazione e un altro pulsante (nel blocchetto di destra) che permette di impostare l’ABS per gli sterrati, escludendo il posteriore. Questa funzione manca sulla Interceptor.

L’impianto frenante Bybre è semplice: un solo disco all’avantreno (da 320 mm) e una pinza non radiale a 2 pistoncini. In questo è simile alla Interceptor, ma non al retrotreno perché lì ha un disco da 270 mm al posto di 240. Pinza a un pistoncino per entrambe le sorelle.

Quattro livree e tre prezzi

Dal punto di vista estetico non c’è molto di originale: si tratta della classica linea all’inglese anni Sessanta, cui già ci siamo abituati con le Triumph Bonneville delle ultime generazioni. Come sempre, però, le colorazioni delle Royal Enfield sono originali e coinvolgenti. E poi ci sono delle piccole chicche qua e là, come l’orso stilizzato vicino al tappo del serbatoio.

Il look tondo del faro posteriore ci sta bene, ma gli indicatori di direzione sono troppo moderni per questa moto. Verrebbe voglia di montare questo gruppo ottico sulla Himalayan 451, che è priva del faro e fa fare tutto alle frecce che però sono a rischio rottura in caso di caduta.

Un progetto tutto nuovo anche se il richiamo alla Interceptor è evidente

Ecco le quattro livree disponibili: la Wild Honey e la Petrol Green costano 7.300 euro franco concessionario. La Golden Shadow 7.400 euro e la Two Four Nine, con telaio acquamarina, scacchi sul serbatoio e tabella numero 249 viene 7.500 euro. La Interceptor, che parte dai 6.700 euro, è declinata con sette livree diverse.

Volendo ci si viaggia

Su RoadBook le moto devono essere bagagliabili, è il minimo visto che parliamo di viaggi. C’è chi storce il naso all’idea di avventurarsi in giro con una moto con meno di 50 CV e priva di carenatura protettiva, ma sono aberrazioni: sembra che la moto ideale sia quella che ci fa volare in autostrada protetti e comodi. Ma è noiosa! Necessaria, certo, ma è sbagliato concepire come moto da viaggio ideale una che dà il meglio di sé in autostrada. La Bear 650 è maneggevole, molto divertente da guidare nei percorsi tortuosi di montagna e si può caricare di bagagli.

Di serie è priva di portapacchi ma, vista la conformazione del telaio reggisella e della maniglia per il passeggero, tanto valeva mettercelo già di serie. E comunque una tenda ci starebbe, messa di traverso, tra la maniglia e il faro.

A Savona c’era una Golden Shadow che era stata privata della maniglia del passeggero e dotata di due telaietti laterali, cui sono state fissate due belle borse morbide e stagne da una ventina di litri ciascuna.

Come va la Royal Enfield Bear 650

Ci sono esempi di moto nate con una certa ciclistica, fantastiche su strada, cui vengono affiancate delle sorelle più fuoristradistiche, equipaggiate con una ruota anteriore da 19” o 21” e con sospensioni dotate di maggiore escursione. Il risultato – prevedibile – è che vanno meglio in fuoristrada e peggio su asfalto.

Un caso eclatante è stato il passaggio dalla BMW F 650 GS monocilindrica alla versione Dakar, quindi dal 19” anteriore al 21”: la moto su asfalto era eccellente ma, con la nuova ciclistica, era peggiorata parecchio. Non andava male, ma la GS base era ben altra cosa. Idem per la Ducati Desert Sled, che su asfalto andava benissimo ma non tanto quanto la Scrambler base.

Qua la cosa non succede. Non c’erano presenti delle Interceptor per fare un confronto diretto, ma la sensazione è che la Bear 650 si guidi meglio.

Purtroppo senza paragoni immediati è difficile certificare una simile affermazione, ma la sensazione è che l’impostazione delle curve avvenga in maniera più naturale. Di diverso abbiamo non solo il diametro della ruota anteriore e l’angolo di sterzo, ma anche gli pneumatici.

La posizione in sella è perfetta a livello triangolazione manubrio-sella-pedane. Busto leggermente inclinato in avanti, manubrio alto ma non arretrato, pedane centrate.

Il motore, per essere un bicilindrico in linea da 650 cc, è bello grosso, tanto che le ginocchia toccano le alette di raffreddamento subito sotto la testa. Così è stato montato un tondino di ferro per evitare contatti.

La sella sulle prime sembra molto comoda e accogliente, invece dopo qualche decina di km si tende ad arretrare perché nella parte anteriore, al confine con il serbatoio, si rivela troppo stretta, cedevole e fastidiosa per l’interno delle cosce. Le vibrazioni sono contenute, mentre la sorella Classic – presentata in concomitanza – le fa avvertire distintamente sulla sella.

Il giro di prova è stato perfetto per provare questa moto con un’ampia latitudine di utilizzo. Traffico mattutino in centro a Savona, poi lungomare fino a Voltri. Segue la via Superiore dei Giovi , una stradina stretta, tortuosa, ripida e scassata fino alla strada del passo del Faiallo, che sul versante est è perfetta per la guida sportiva: asfalto perfetto e curve a largo raggio. Mentre a ovest il fondo è rovinato, ottimo per testare le sospensioni. Quindi Sassello, colle del Giovo e sterrato del Bric Burdone. C’è scappata pure la deviazione al forte Geremia, che vediamo qui sotto.

Il bicilindrico è silenzioso ma la tonalità di scarico è molto piacevole. Non soffre di on-off e le pulsazioni ai bassi rendono la marcia godibile. È il classico motore che piace a chi ama riprendere con estrema pulizia dai 2.000 giri in terza o quarta marcia, come quando ti godi le stradine di campagna guardando il paesaggio. Usata così, questa moto è una favola.

Arrivato ai 4.000 giri, però, si siede e riprende verve dopo i 5.000. Non è il tipo di motore che vorremmo su una maxienduro da usare nel fuoristrada impegnativo, perché sui salitoni verrebbe a mancare la spinta ai regimi decisivi. Probabilmente saremmo sempre in prima marcia. La frizione non è morbidissima, ma il cambio è preciso e ha gli innesti dolci.

C’è piaciuta tantissimo anche sul Faiallo e sulla stradina stretta e scassata dei Giovi. All’inizio le sospensioni sembravano rispondere in maniera secca e con un ritorno troppo rapido, ma erano su una moto con appena 80 km di vita. Ne abbiamo presa una che aveva passato i 600 e il comportamento era decisamente migliore.

La moto entra in curva senza alcuna fatica e con una certa rapidità. Anche se è stata alzata rispetto alla Interceptor, rimane pur sempre una moto bassa di sella e baricentro, che non dà alcun patema nelle manovre e nei parcheggi, anche se pesa un bel po’ sopra i 200 kg. Si può definire una moto “spensierata”, divertente e piacevole.

I freni solitamente non sono il pezzo forte delle Royal Enfield e qui abbiamo un impianto essenziale, ma il comportamento è buono, come potenza e modulabilità.

La sessione fuoristrada ci ha stupiti. Di solito, alle presentazioni si tende a far fare brevi strade bianche facilissime, per risparmiare moto e piloti. Qua invece ci hanno fatto affrontare otto chilometri di una sterrata non banale, paragonabile alla Strada dell’Assietta in Piemonte. Probabilmente è troppo per chi compra una moto simile ma siamo contenti che sia andata così, perché abbiamo visto che la Bear si comporta molto meglio del previsto.

Guidandola in piedi vorremmo un manubrio più alto e dei fianchi più snelli. Ma non è il suo mestiere, va bene così. Le sospensioni copiano bene le asperità, nonostante la corsa molto più corta rispetto a quelle delle maxienduro. La frenata va impostata in modalità Offroad, con l’ABS posteriore escluso. Altrimenti il sistema antibloccaggio è troppo invasivo ed entra subito.

Non abbiamo avuto modo di calcolare i consumi, né di provare questa moto con il buio (quindi non sappiamo come funzioni il bel faro tondo anteriore) e con il passeggero. Non sappiamo neanche se in estate scalda le gambe. Ma un viaggetto ce lo faremmo volentieri.

Le concorrenti della Royal Enfield Bear

La cilindrata la avvicina a rivali ben più costose e potenti, come le Ducati Scrambler, la Benelli Leoncino 800 e la Fantic Caballero 700; il prezzo invece a moto più piccole, come la Triumph Scrambler 400X monocilindrica.

Ma una rivale diretta c’è ed è la Moto Morini Seiemezzo SCR. Ha linee più moderne, prestazioni simili e un prezzo inferiore (6.740 euro franco concessionario). In Royal Enfield sembrano conoscere bene questa moto, visto che la versione Wild Honey riporta la scritta 6 1/2 sul serbatoio.

In finale una cosa che non c’entra nulla, invece sì: in moto si viaggia anche per conoscere nuovi sapori e alla presentazione della Bear 650 ci hanno ospitato al ristorante A Spurcacciun-a di Savona, dove ci hanno fatto assaggiare quello che vedete sotto.

Una spuma tiepida di rocoto (un peperoncino peruviano), alghe e cozze che già di suo era squisita. Ma, tirando su col cucchiaio, ecco la sorpresa: il gelato alla liquirizia che non ci aspettavamo.

Un impatto devastante nel palato, una delle cose più buone che ci sia mai capitato di mangiare. E la finiamo qua. Scusate, era troppo buono per non dirvi che Savona vale un viaggio soltanto per questo. Andateci con la Bear, magari attraverso le Langhe. Ne vale la pena.

Royal Enfield Bear
Piacere di guida
8.5
Capacità di carico
6.5
Ciclistica
7.5
Versatilità
7.5
Pro
Erogazione piacevole
Guida divertente
Cambio preciso
Contro
Flessione ai 4.000 giri
Comfort sella
Assenza portapacchi di serie
7.5
Totale