HAT Legend, nel segno degli anni Ottanta

Ennesimo evento della prolifica serie delle HAT, si ispira alla prima Hardalpitour ma ha il suo punto di forza nell’utilizzo di moto vecchie di quarant’anni, affascinanti come in poche altre ere storiche per via dello stretto legame con la Dakar.

di Mario Ciaccia


Per capire la visione che c’è stata dietro la HAT Legend bisogna conoscere i trascorsi del suo ideatore, Corrado Capra. Negli anni Settanta amava andare in fuoristrada in moto e la cosa che più gli piaceva era esplorare le sterrate militari delle Alpi Occidentali, ma sognava di andare in Africa. Mancavano, però, le moto adatte.

Lui utilizzava le regolarità a due tempi sulle Alpi e le bicilindriche da strada in giro per l’Europa, ma non aveva un mezzo adatto all’Africa. Quando BMW ha presentato la R 80 G/S, ha capito che era la moto che gli serviva per concretizzare i sogni. L’ha comprata nei primi anni Ottanta e l’ha usata per anni, sulle Alpi e in Africa, spaziando tra il monte Chaberton e il deserto del Ténéré.

Oggi la espone come suo biglietto da visita ai vari eventi che organizza: qui siamo a Boves, proprio durante la HAT Legend 2025.

Nel 2009 ha avuto la visione della HardAlpiTour, che oggi chiamiamo HAT: una sorta di Baja 1000 all’italiana, una sfida per vedere se si riuscivano ad attraversare le sterrate militari delle Alpi Occidentali in meno di 24 ore, ovvero 540 km senza andare a nanna.

La HAT avuto un successo clamoroso, diventando un punto di riferimento in tutta Europa e ogni anno vede quasi 500 partecipanti al via. Si è però involuta, in un certo senso: è così famosa ed è diventata una tale tacca sul fucile che molti partecipanti si iscrivono solo perché fa figo, anche se non conoscono la storia, si fermano a dormire e poi tagliano pezzi per recuperare.

La nostalgia alla base della HAT Legend

Nostalgico delle prime edizioni, così come delle moto anni Ottanta del periodo d’oro dei suoi viaggi in moto, Corrado ha così pensato a una nuova HAT, una variazione sul tema da affiancare a quella originale: ripercorrere il tracciato originale del 2009, ma solo con moto progettate almeno 35 anni fa. Così concepita, però, aveva il percorso come protagonista assoluto, mentre era forse il caso di celebrare più le moto.

La HAT Legend come filosofia si stacca completamente dalla HAT cui si ispira, inserendosi nel filone delle manifestazioni legate alle moto del passato, quelle spartane, semplici, essenziali ma anche poco pratiche e tanto bisognose di cure… e di affetto. Un filone che interessa diversa gente e che viene soddisfatto da un po’ di manifestazioni, ma che probabilmente fa più fatica a trovare grossi sponsor di settore. Magari è solo questione di spostare la mira: per dire, non sono poche le linee di abbigliamento vintage presenti nei cataloghi delle marche più “sul pezzo”.

Quindi la cosa s’è evoluta in un percorso ad anello, con due tappe da 150 km in modo da terminarle presto e godersi una serata speciale al sabato, con le moto esposte, un concorso per premiarne sei sotto varie voci e una serata a teatro con ospiti protagonisti degli anni Ottanta, che raccontassero cose relative a quegli anni.

Era il periodo in cui la Dakar impazzava: le enduro stradali di quegli anni erano direttamente ispirate e riferite alla maratona africana, alla quale gli ospiti coinvolti erano inevitabilmente legati.

Per quel che mi riguarda, avrei voluto partecipare all’evento con una Moto Morini Camel 500. Capiterà anche a voi di innamorarvi di motociclette che magari non sono quelle ideali per le vostre esigenze, ma hanno un fascino e un carisma che vi fanno passare sopra ogni cosa.

A 15 anni ero convinto che la Moto Morini 3 ½ fosse uno dei mezzi migliori in circolazione tra quelli guidabili a 18 anni, e mi ero esaltato di fronte alla 500 Turbo della stessa Casa. Così, quando uscì la Camel 500, mi esaltai.

È stata la prima endurona italiana della generazione di on-off realmente efficienti e mi incantavo a guardare le foto di Massimiliano Valentini che ci saltava di traverso durante le gare di regolarità (come alla Sei Giorni dell’Isola d’Elba del 1981) o le pubblicità che ne celebravano le prestazioni alla 5×5 Transafrica.

Nel 1991 comprai una Kanguro 350 ma non aveva la stessa storia, lo stesso carisma, la stessa estetica. In compenso, era una baracca che si spaccava dappertutto. Ancora oggi, quando vedo una Camel prima serie mi vanno gli ormoni in circolo. Alla HAT Legend ho partecipato con un’altra moto da sogno.

Al MBE di Verona 2025 Paolo Venezia, la mente dei tablet WLP, esponeva una sua creatura, una Honda XR 600R modificata per farne una moto usabile con disinvoltura nei tempi moderni.

Motore Dominator con doppio avviamento (elettrico e pedale) e carburatore a membrana, avantreno Yamaha WR450F (quindi forcella Kayaba, mozzo, ruota e impianto frenante), serbatoio Acerbis da 22 litri, fari LED, tablet WLP da 8″. Ne ho scritto con toni entusiastici in un mio post e la cosa mi ha portato bene, perché Paolo ha detto “Visto che ti piace la mia moto, te la darò per la HAT Legend”.

Il motore Dominator 650, a differenza dell’XR 600 originale, ha un’erogazione più dolce e… pum pum, quindi ne fa una moto meno aggressiva e corsaiola, ma più adatta ai viaggi e a una marcia in pieno relax, se si amano i grossi monocilindrici.

Tra l’altro è stata la prima volta che ho usato un tablet da 8” per navigare una traccia e ho fatto male, perché adesso tornare al mio GPS da 4” sarà dura. Non solo vedi tutto più grande, ma anche più esteso. Un teleobiettivo grandangolare, se mi fate passare l’ossimoro. E poi lo puoi comandare dal manubrio con i tasti che si vedono in foto: i sinistri comandano il tablet, il centrale gestisce l’alimentazione di pulsantiera e tablet e a destra c’è il canonico blocchetto dei comandi della moto.

Possiamo quindi dire che la storia del GPS è iniziata con i dispositivi dedicati (e il dominio di Garmin, nonostante Magellan facesse ottime cose) ma poi sono arrivati gli smartphone e, mentre questi stanno ancora imponendosi, ora è la volta dei tablet rugged da 7″/8″ con le app apposite.

HAT Legend: quasi 120 pioniere sulle veterane

In tutto si sono iscritte 117 persone e le moto dovevano essere dual sport 4 tempi progettate entro la fine degli anni Ottanta. Ma valevano anche le derivate strette degli anni successivi: per dire, la Yamaha TT 600 R del 1996 era ammessa, perché derivava molto da vicino dalla TT degli anni Ottanta. Mentre la Suzuki DR-Z 400, essendo nata da un foglio bianco a fine anni Novanta, non andava bene.

C’erano anche deroghe particolari verso moto che, pur non obbedendo ciecamente alle regole, hanno avuto comunque un ruolo nella storia delle dual sport di quel periodo, come la Cagiva SX350 a due tempi o la KTM 640 LC4 Adventure degli anni Novanta.

Al via c’erano svariate chicche. La moto che più mi ha fatto battere il cuore è stata proprio una Camel 500 rifatta da zero da Donato Di Luzio, cercando di mantenersi fedele a quella di Valentini. Non è bellissima? Sembra una classica regolarità anni Settanta, ma c’è quel grosso V2 al centro a dirci che come lei nessuna mai. E dovreste sentire come canta…

C’erano BMW ispirate alle Dakar africane, un sacco di Yamaha XT500 (il MC relativo era il più numeroso), la Suzuki DR 800 S Big del preparatore tedesco Stefan Hessler (che la sta elaborando incessantemente da 35 anni), parecchie variazioni sul tema Honda Africa Twin o Transalp.

Clamorosamente poche le Yamaha Ténéré, con totale assenza di membri del MC dedicato a questa moto.

Quello che ci ha colpito è stato lo spirito dei partecipanti. Purtroppo, alle cavalcate non mancano mai i piloti falliti, che vanno a manetta come se fossero in gara, rovinando un po’ l’atmosfera.

Qua non ce n’erano, incredibile. L’atmosfera era rilassata, la gente era orgogliosa di usare moto vissute ed era incuriosita da quelle degli altri.

La partenza è stata da Garessio (CN), come avvenne tra il 2012 e il 2016. L’idea originaria della HAT era quella di partire dal Mar Ligure e arrivare in Valsusa ma, per questioni logistiche, Corrado trovò più facile partire dalla Valle del Tanaro (CN).

Siamo nel Piemonte meridionale, in una zona molto affascinante come paesaggi e villaggi, ma ignota dal grande turismo. E ciò ne aumenta il fascino. Solo nel 2017, quando Nicola Poggio era entrato a far parte dell’organizzazione, la partenza è stata spostata nella più mondana Sanremo (IM), coerentemente con l’idea di partire dal mare.

Se siete curiosi di andare in moto in Val Tanaro, non possiamo non suggerire il pernotto nel B&B Sportinghouse proprio lì a Garessio: è gestito da Vinicio Roberi, che ha corso nel mondiale cross, quindi ha un occhio di riguardo nei confronti di chi viaggia a due ruote (mountain bike comprese).

Il percorso era un mix di varie edizioni delle HAT dei primi anni, delle Extreme e delle ultime Classic disputate.

In blu la tappa di sabato, da Garessio a Boves passando per la Via del Sale, con quota massima 2.240 m. In verde la domenica, da Boves a Garessio per le vie Marenche, fino ai 1.900 m di quota. Clima freddo al mattino, tiepido poi, luce spaziale, cielo blu, che fortuna.

Si iniziava con il passo Caprauna, sopra Ormea, dal quale si planava a Pornassio con una lunghissima strada sterrata. Quelle pale eoliche sono considerate ecomostri da alcuni e affascinanti da altri, ma per i veterani della HAT significano che il ristoro di Garessio si sta avvicinando.

La HAT Classic, infatti, percorre questa strada in senso contrario. Qua significava… che era il ristoro di Pornassio ad avvicinarsi.

Ma la perla della prima tappa è stata la Via del Sale, o meglio, la più famosa tra le nove vie del sale liguri, cioè quella del Colle di Tenda. Si tratta di uno dei percorsi sterrati aperti al traffico veicolare più frequentati del nord Italia, per via dello straordinario ambiente naturale in cui si svolge. Nella foto sopra si vede il “tornante sospeso”, per molti il più bello del mondo: è una terrazza affacciata di fronte al Monviso.

Chi non è mai stato qui sopporta il fondo molto sassoso in cambio di un panorama davvero affascinante, soprattutto nella zona tra i Colli del Lago dei Signori e quello della Boaria, dove si attraversa un deserto di pietre bianche. Chi invece la conosce bene, come il sottoscritto che ci passa ogni anno da 30 anni, resta comunque estasiato tutte le volte.

In foto vediamo con la Gilera RC 600 Roberto Mandelli, che vinse una tappa della Dakar 1990 proprio con una moto della Casa brianzola e sulla Yamaha gialla Davide Perrella, presidente uscente del MC XT500 Italia.

Sulla Via del Sale, il tornante più bello del mondo

In queste foto vediamo Maurizio Bombarda, ex crossista e titolare di BER Racing, su una Honda XR 250R; Riccardo, che in comune con Corrado ha la passione per le vecchie BMW e il cognome Capra… ma non sono parenti; Daniele Bosisio con la Cagiva Elefant 900 che arrivò seconda alla Dakar 1994 con Jordi Arcarons e Di Luzio con la sua favolosa Camel.

La Hat Legend dà spettacolo a Boves

Abituato alle tappe da 250/300 km degli eventi adventouring, pensavo che la formula della tappa non troppo lunga (150 km) generasse scontenti, invece è stata una buona idea. Quei 150 km erano infatti tutti interessanti, con paesaggi ai massimi livelli. La distanza non ha generato stress e timore di non farcela, del resto le moto usate avevano tutte più o meno 40 anni.

Inoltre ha consentito di fare soste nei bar e di arrivare nel primo pomeriggio a Boves (CN) dove, nella sua bella piazza con edifici in stile razionalista (come a Latina!), erano esposte le moto, tra le quali alcune particolarmente interessanti.

Tra gli espositori c’era Mario Dente, che vive in Francia e ha una collezione di moto impressionante, specie Gilera e Cagiva legate ai rally. Per dire: nel suo garage c’è persino il bellissimo prototipo della Gilera RC 600, come diavolo ha fatto?

In queste foto si vedono una misteriosa Gilera 125 4T da enduro dei primi anni Ottanta, sempre di Mario Dente, con un motore che ricorda il 200 T4 derivato dal 150 Arcore. Il signore in piedi è Stefan Hessler, che viveva in Germania dell’Est, sognava la Suzuki Big ma ha potuto comprarla solo con la caduta del Muro di Berlino; oggi è considerato il guru mondiale della preparazione di quella moto, la monocilindrica più grossa del mondo.

C’è anche il serbatoio della Gilera-Frigerio 125 dell’ingegner Romolo Ciancamerla: è un prototipo mai entrato in produzione, che lui ha fatto suo e che usa a tutti questi eventi. E poi vedete la replica dell’unica Moto Guzzi che sia mai riuscita ad arrivare a Dakar: era il 1979 e il pilota era Bernard Rigoni. La moto era una V50 da strada che era stata modificata con la forcella di una KTM 250 2T da regolarità, scarichi alti che passavano tra telaio e serbatoio, e… ruota a razze posteriore di serie, perché non si trovò un giunto alternativo per il cardano.

Andrea Balestrieri, il primo italiano che sia riuscito a finire una Dakar in moto. Era il 1983 e lui correva per il team Belgarda con una Yamaha XT550 equipaggiata con freni a tamburo. Ebbe mille problemi e rischiò di uscire di scena quando disintegrò il cerchio anteriore, ma riuscì a rimpiazzarlo con quello di una moto dotata di freno a disco. Così arrivò a Dakar frenando solo dietro, dato che a lui mancava la pinza.

Sono questi racconti delle Dakar anni Ottanta che fanno sognare gli appassionati degli eventi adventouring ed è per questo che è stata organizzata la serata dakariana al teatro di Boves. Anche se si creano delle situazioni assurde: i racconti dei “dakariani africani” ci fanno sognare, compriamo moto ispirate ai rally e ai grandi raid, mentre guidiamo ci sentiamo come Balestrieri però poi ai fine tappa, se il ristorante dista 4 km, ci rifiutiamo di andarci in moto ed esigiamo le navette.

Per il 2026, forse, la HAT Legend potrebbe riuscire ancora meglio se la cena fosse raggiungibile a piedi e se il percorso fosse a margherita, così da avere un’unica piazza per le partenze, gli arrivi e gli show. Tra l’altro la formula, più semplice di quella delle HAT a lunga gittata, è facilmente esportabile, tanto che per il 2026 si ipotizza una sede diversa, fuori dal Piemonte.

Fatto sta che, tra una chiacchiera e l’altra, s’è fatta notte, c’è stata la cena e si è andati a teatro a sentire i veri veterani: Andrea Balestrieri (che, tra le altre cose, ha fatto pure un terzo posto alla Dakar del 1986), Roberto Mandelli (che, come già detto, vinse una tappa nel 1990), Roberto Boano (corse diverse Dakar, ma è ricordato soprattutto per quelle con le Honda Africa Twin Marathon), Romolo Ciancamerla (che progettò la Gilera RC 600) e Maurizio Bombarda di BER Racing, che in passato ha corso i rally con una Kawasaki KLR 600 e il Camel Trophy con una Honda Dominator.

Sono seguite le premiazioni, con tre moto scelte da una giuria composta da Corrado Capra in persona, Antoine Beltramone della prima sede italiana di SW-MOTECH (che si trova proprio a Boves) e il sottoscritto. Altre tre moto erano nominate dalle votazioni della gente in piazza.

Moto leggendaria: la Yamaha XT500, perché è stata la prima veramente adatta ai rally e ai raid. Migliori preparazioni: secondo la giuria la Suzuki Big di Hessler, secondo il pubblico la BMW di Paolo Filippini, che replica la R 100 G/S di Hubert Auriol del 1984. Moto che la giuria avrebbe voluto portarsi a casa: il prototipo della Gilera RC 600.

Miglior restauro: la Morini Camel 500 by Di Luzio che, in realtà, era una replica, ma il pubblico non se n’è accorto. Infine, la sorpresa: per il pubblico, la moto più bella è stata la BMW R 80 G/S assolutamente di serie di Fabrizio Saglietto. Aveva un design avantissimo, quella moto, 45 anni fa ed è bella e moderna ancora oggi.

HAT Legend, la seconda tappa

Il pezzo forte di questa tappa sono state le Vie Marenche che, come le vie del sale, portavano al mare. Oggi portano sulle piste da sci: sono le sterrate di servizio degli impianti di Artesina e di Prato Nevoso. e anche da qui le viste sul Monviso che si alza sopra la pianura piemontese sono eccezionali.

La R 80 G/S aveva un design avantissimo 45 anni fa, ed è bella ancora oggi

Le altre parti sfruttavano i tracciati delle HAT Extreme e Master Challenge: è stato anche rifatto un pezzo inserito soltanto nel 2016 e che passava per Pamparato. Anche in questa tappa non sono mancate le pietraie, come quella tra le due Frabosa, Sottana e Soprana.

Le foto con l’aquila di legno e i gatti che mi rubano il formaggio raschera le ho scattate nel punto più bucolico del week end, ovvero il valico del Bric Vernaglio. C’è anche lo sterrato sopra Valcasotto.

Gran finale con l’altopiano sotto la vetta del monde Mindino, in direzione contraria alla HAT Extreme e con una sterrata in discesa che viene affrontata soltanto dalla HAT Master Challenge. Mi piace questa commistione di pezzi di percorso che conosco a memoria, ma mai combinati in questo modo. In foto due alfieri del MC Africa Twin, Giorgia e Paolo, con le loro Africone masticatissime.

Il fine tappa è avvenuto nel borgo vecchio di Garessio, dove si trova una gelateria che vende gusti banali e scontati come il fieno. Ma c’era anche l’aperitivo per tutti, con tanto di pizze e focacce, cosa che alle HAT più popolate si vede di rado, se non mai.

Mandelli ha tirato fuori la sua RC600 dakariana, quella gloriosa del 1990. A teatro aveva raccontato com’era andata quella famosa tappa, qua ha mostrato la moto ma, soprattutto, me l’ha fatta provare. Alta, panoramica, con un motore elastico e fluido che urla i più bei pum pum del mondo e sospensioni a “cuscino d’aria”, mi ha stupito: pensavo che fosse rozza e scorbutica, invece ci andrei in vacanza, giuro!