Pensando a un giro del mondo in moto viene da chiedersi che itinerario fare e quali siano le tappe fondamentali. La risposta giusta è “passa dove vuoi”, ma è bello parlarne lo stesso.
di Mario Ciaccia
Nella scorsa Ciacciastoria ho parlato delle diverse filosofie e modi intendere il giro del mondo in moto, dividendoli grosso modo in tre categorie.
Se mai dovessi farlo, nel mio caso non sarebbe una fuga dalla realtà e non vorrei battere un record, ma potrebbe essere la mia tesi di laurea su ciò che mi appassiona del viaggiare in moto, ovvero il guidare al cospetto di panorami straordinari, soprattutto deserti e montagne.
Il budget per il giro del mondo in moto
Essendo un sogno, i soldi non sarebbero un problema. Mi porterei uno scanner portatile che trasforma i foglietti di carta in biglietti falsi da 10 euro. A quel punto li venderei a 20 euro ciascuno, facendo l’affare del secolo e potendomi mantenere per tutto il tempo che voglio.
Sopra ogni cosa vorrei fare il trittico Pamir-Himalaya-Mongolia e le Ande. Ho un pallino, un itinerario che credo nessuno abbia mai fatto: la traversata integrale della catena himalayana da ovest ad est, partendo da Oš (Kirghizistan) in Pamir e arrivando a Chengdu (Cina).
Sembra un sogno stupido e senza senso, ma anni fa avevo fatto un articolo apposta, chiedendo lumi sulle dogane e sulle varie transitabilità a chi aveva viaggiato diverse volte in Cina con la moto. In tutto sono 8.200 km, con in mezzo 89 passi di montagna tra i 640 e i 5.763 metri. Di questi, 71 superano i 4.000 metri di altezza e 20 i 5.000.
Penso che sia uno dei viaggi più complicati che si possano fare, per le dogane, il clima (ce la fai a percorrere 8.200 km tra un inverno e l’altro?), le frane, i rischi di fare frontali, i passi chiusi per neve e altre amenità.
La fissa per questo giro mi è venuta quando, nel 2016, andai in Himalaya a provare la Royal Enfield Himalayan prima ancora che venisse importata da noi e mi resi conto che fare 8.000 km come quelli sopra sarebbe stato un paradiso-inferno allo stesso tempo. A quanti incontri-scontri come quelli in foto puoi resistere, prima di finire di sotto?
Giro del mondo in moto: iniziamo dalle Alpi
No, davvero: se mi sparo tutta la catena himalayana, devo iniziare facendomi tutte le Alpi dalla Liguria al Friuli, non si scappa. Ma se voglio arrivare a Osh a inizio estate, immagino che le Alpi dovrò farmele in pieno inverno.
Quindi la scelta dei passi si riduce parecchio: potrebbe essere un Maddalena-Vars-Monginevro-tunnel del Gran San Bernardo-Sempione (nella foto sopra). Proseguirei poi con Maloja-Bernina (il più alto tra gli invernali, 2.328 m)-Tonale-Gardena-Valparola-Tre Croci fino alla Carnia, la mia regione alpina preferita.
E da lì seguirebbe la lunga cavalcata fino in Kirghizistan, passando per Turchia, Iran (forse il posto più interessante al mondo dal punto di vista dei rapporti umani) e i vari “-stan”. Della traversata himalayana ho pure disegnato una mappa molto accurata, non posso sbagliare strada.
Le “ciotole” della Mongolia e la neve giapponese
La scelta di passare dalla Mongolia è dovuta al fatto che non ci sono mai stato, ma i suoi paesaggi “a ciotola” (piccoli altopiani circondati da montagne) sono i miei preferiti in assoluto, e in Italia ci sono tantissimi posti così.
Sono così tante le volte che passo per posti come questo (nella foto sopra siamo tra Amatrice e Norcia) dicendo che «sembra la Mongolia», che mi viene il dubbio che sia la Mongolia a somigliare all’Italia.
Il problema è che già sarebbe durissima fare quegli 8.200 km himalayani prima che arrivi l’inverno e, a quel punto, sarei molto più a sud della Mongolia, dove la cattiva stagione è ferocissima. Mi sa che la devo saltare.
Rispetto alla Mongolia, il Giappone sarebbe strategico perché ci arriverei in autunno. Mi sono fatto il film che per uno come me, che ama il foliage, il Giappone sia l’ombelico del mondo.
E così, quando mi trovo in posti dove l’autunno si scatena al massimo, come qui sopra a San Pancrazio in Valle Intelvi (CO), mi viene da dire «Sembra il Giappone». Una volta lì però aspetterei anche l’arrivo dell’inverno: per una questione di latitudine, correnti umide marine e non so che altro, il Paese del Sol Levante è il paradiso delle nevicate fuori di testa. Vorrei semplicemente sciare su tonnellate di neve fresca.
Non sto raccontando palle e un modo per capire l’entità di tali nevicate è guardare le foto della strada Tateyama-Kurobe, che si arrampica fino ai 2.450 metri della località Murodo. Di solito viene aperta in aprile e per arrivare lassù si passa in mezzo a muri di neve che sembrano prodotti dall’intelligenza artificiale. Per fortuna, io sbavo su queste foto da anni, mentre l’AI è arrivata da poco, per cui mi fido. Quest’anno i muri erano alti fino a sedici metri, ma so che gli anni scorsi si sono passati i venti metri.
Il problema è un altro: questa strada incredibile è vietata al traffico. L’unica cosa che puoi fare è una gita a bordo di un pullman che ti porta spedito fin quasi in cima, per fermarsi in uno dei punti con i muri alla massima altezza. Lì ti fanno scendere, ci sono le fettucce per non farti andare in giro, ti fai cinque minuti di selfie pressato contro gli altri visitatori e poi via, si riparte. Non posso farcela.
Dall’Asia all’Oceania
A quel punto avrei un problema non da poco perché se penso che l’inverno in Giappone sia motociclettabile, ovviamente con lo stesso spirito ed equipaggiamento con cui si va all’Elefantentreffen, ho paura che in Alaska faccia davvero troppo freddo per poterselo godere come viaggio spensierato e non come impresa estrema.
L’idea era quella di sbarcare lì per poi attraversare il continente americano verso sud; invece direi che è meglio fare al contrario, ovvero dal Sudamerica in su: quindi dal Giappone tornerei in Cina, scenderei verso sud e attraverserei il Vietnam per due motivi: uno è che la sua storia recente, quella degli anni ’70, mi ha molto colpito.
L’altro motivo è che in Vietnam si è svolta la mia puntata preferita di Top Gear, quando i tre pazzi hanno dovuto attraversare il Sud e il Nord con delle moto pagate pochissimo eppure «ci abbiamo messo otto giorni, quando gli americani non ci riuscirono in dieci anni».
Da lì finirei in Australia: laggiù nel 1996 avevo affittato una Suzuki DR650SE ed ero andato in un posto fighissimo chiamato Cape Tribulation, ma in quel periodo stavo cercando di imparare a fare i video. Così non feci foto, ma i video li incisi su una minicassetta e poi li salvai su VHS.
Tutta roba che è marcita. Quindi niente foto e niente video. Ricordo che in un villaggio vendevano la benzina solo in taniche all’emporio, ma lo trovai chiuso perché il giorno prima un coccodrillo aveva ucciso la moglie del proprietario.
Comunque ho dei bei ricordi dell’Australia, quindi me la girerei tutta passando per l’Ayers Rock che è nell’ombelico del suo deserto più deserto. I nativi la chiamano Uluru, che significa “Piccola Pietra Parcellara”. Adesso dovrei andare avanti, ma penso che la battuta andrebbe spiegata.
Guidare al cospetto di panorami straordinari
Pietra Parcellara è quel sasso scuro che vedete là in fondo e che si trova su un altopiano posto tra la val Trebbia e il passo della Caldarola (PC). Quando il tempo è bello e il sole la illumina, diventa un po’ arancione.
Ma torniamo in Australia, dove vorrei fare una visita culturale: ovvero percorrere la tappa di un rally internazionale, forse con la parola Safari contenuta nella sua denominazione, in cui Kevin Schwantz, idolo della velocità e della classe 500, corse e vinse in sella a una Suzuki DR-Z 400. E poi vorrei andare sulle Alpi neozelandesi. E anche in Tasmania.
Tempo fa ho scoperto che un gruppo musicale che mi piace molto, All India Radio, arriva da Hobart, che è la capitale dell’isola. Così mi sono detto: «Ma allora la Tasmania esiste! Devo andarci».
Giro del mondo in moto: i grandi dilemmi
Il grosso problema è che a questo punto l’inverno sarebbe finito… ma al di sopra dell’equatore, mentre io adesso sarei finito al di sotto, dove sta per iniziare. E io dovrei sbarcare in Cile e andare a Puerto Williams che, ottenuto sei anni fa lo status di città, ha rubato a Ushuaia (Argentina) il titolo di città più a sud del mondo.
A questo punto non so cosa fare: se dal Giappone passo subito all’Alaska, mi becco l’inverno. Se faccio passare l’inverno scendendo in Australia e sbarcando in Cile, me lo becco lo stesso. Sarebbe l’inverno del secondo anno di viaggio e mi mancherebbero ancora tutte le Americhe e tutta l’Africa. Accidenti, pensavo di essere più veloce.
Iniziare dal Cile durante l’inverno australe, significa arrivare in Alaska durante l’inverno boreale. Non pensavo che un giro del mondo si rivelasse così difficile pur facendolo alla Emilio Salgari, ovvero senza uscire dalla propria cameretta.
L’unica soluzione sarebbe prendere un traghetto che vada da Sidney ad Anchorage. Sono 12.000 km, a 50 km/h fissi ci metterebbe dieci giorni. Non sarebbe così assurdo: la nave più grande della Grimaldi, la Cruise Barcelona, con 900 litri di carburante a bordo ha un’autonomia di 8.500 km.
Proprio a metà strada ci sono le isole Hawaii, quindi sarebbe fattibile. Ma probabilmente la cosa resta nel mondo della pura utopia, perché non so quanta gente sia interessata a prendere un traghetto che vada dall’Australia all’Alaska!
Del Nordamerica mi piacerebbe percorrere la Dalton Highway fino in cima, a Prudhoe Bay, che sarebbe un gigantesco polo petrolifero ma è talmente… lassù e i panorami sono tali che ne vale sicuramente la pena. Guardate che strada!
A quel punto mi piacerebbe fare un doppio Coast to Coast: il primo attraverso il Canada e il secondo attraverso gli Usa.
Non pensavo che un giro del mondo si rivelasse così difficile
Negli USA vorrei rendere omaggio al mio amico Polpo, che fece un clamoroso Coast to Coast in fuoristrada una dozzina di anni fa, poi fu colto da ictus poco dopo essere tornato in Italia ed è morto nel luglio 2024, subito dopo avere concluso il video del viaggio.
In sostanza ci mise oltre 10 anni a fare quel video, come se sapesse che, finito quello, sarebbe terminato anche il suo tempo su questa terra. Guardandolo ho scoperto un posto incredibile, l’Ophir Pass a 3.600 metri di altitudine, raggiungibile in sterrato, ai cui piedi sorge il minuscolo paesino omonimo (2.930 m): 163 abitanti, 55 bambini, 30 cani e 15 gatti.
Sempre più giù
Ma poi sarei sempre più attratto dal Sudamerica, perché nel deserto di Atacama e in Patagonia ho visto i paesaggi più belli della mia vita e vorrei rivederli.
La Ruta 40 sarà ancora sterrata? L’ho fatta nel 2005 ed erano centinaia e centinaia di km su pura ghiaia, senza incontrare paesi. Fantastico. Ma sento sempre più gente raccontare che ne stanno asfaltando grandi tratti.
I paesaggi resterebbero ovviamente grandiosi, ma l’asfalto ha un potere nefasto nella poesia di un viaggio di questo genere: è come se le strade sterrate ti unissero alla natura, mentre quelle asfaltate ti isolassero da lei.
Nel deserto di Atacama e in Patagonia ho visto i paesaggi più belli della mia vita
Invece il deserto di Atacama in Cile è un mischione di generi paesaggistici che non c’entrano tra loro, come il mare, i vulcani alti 6.000 metri, le strade che arrivano a 5.000, le dune di sabbia tipo Sahara, i laghi di acqua blu celeste con i fenicotteri, ma a 4.000 metri di quota. È il paradiso.
Infine in Africa
A questo punto finirei con una bella traversata da sud a nord dell’Africa. Ci sono già stato diverse volte e la vivo a due strati: quella sotto al Sahara è interessantissima a livello sociale. Sarebbe la culla della nostra civiltà, gli esseri umani sono partiti da qui. Ma ci sono divari pazzeschi tra le campagne e le città.
Qui siamo in Karamoja, una regione prettamente rurale dell’Uganda, dove la gente viaggia per lo più a piedi e vive nelle capanne. Da viaggiatore, passare per queste campagne è una cosa struggente, sembra che tutti vivano in armonia tra loro e con la natura, ti domandi perché tutto il mondo non poteva restare così. Poi, certo, sono messi male a livello sanitario e si massacrano per rubarsi il bestiame a vicenda, però le domande te le continui a fare.
Invece le città africane sono terribili, tra povertà, violenza, sporcizia, degrado. Questa è una delle peggiori dove sono stato, Goma, in Congo, dove ai grossi problemi dovuti alla presenza di campi profughi Hutu s’è aggiunta una colata lavica che ha distrutto centinaia di abitazioni. In un viaggio che vuole conoscere e, forse, capire il mondo ci sta anche questo.
Il gran finale, prima di tornare a casa (a questo punto sarebbero passati tre anni) dovrebbe essere la traversata di sua maestà il Sahara, magari passando per il Murzuq, il deserto più simile a un dolce al cioccolato che abbia mai visto.
Questa foto l’ho scattata nel 2008, prima che iniziasse la guerra: visto che tutto quest’articolo è basato su un sogno, tanto vale immaginare che la guerra sia finita e che la Libia sia una nazione in pace.