Gavia in moto: le tante facce di un passo

C’è un valico di montagna che amate particolarmente? E se ci andate spesso, lo vivete sempre allo stesso modo?

di Mario Ciaccia


Ciascuno di noi ha un passo di montagna nel cuore. Non è necessariamente quello che giudichiamo il migliore dal punto di vista paesaggistico o del gusto di guida. Siamo nel campo dell’irrazionale, quello per cui conosciamo due persone e ci sentiamo attratti da quella meno carina perché esistono altre cose oltre a quelle oggettivamente giudicabili.

Per dire, il valico che mi ha impressionato di più in assoluto, tra quelli che ho affrontato in moto, è il Paso de Jama (4.200 m) che collega San Pedro de Atacama in Cile con Jujuy in Argentina.

Non c’entra nulla con la percezione che ho dei passi alpini. Infatti si trova in mezzo a un altopiano desertico, con un tratto di 170 km in cui non si scende mai sotto ai 4.000 m. Nel mezzo ci sono montagne, vulcani, deserti di sabbia, laghetti con fenicotteri, formazioni rocciose simili a menhir… e zero tra case e paesi. Impressionante, pazzesco, fantastico, eccezionale. Mi ha colpito, quindi, per la sua “architettura”. Se invece parliamo di paesaggio, forse il più bello che ho visto è quello che conduce alla laguna Miscanti (4.235 m), a qualche centinaio di chilometri in pieno deserto di Atacama.

Una sterrata di colore bianco che costeggia un lago dominato da un vulcano. Però io in quei posti ci sono stato soltanto una volta, ci tornerei volentieri, ma sono dall’altra parte del globo, non ho fatto in tempo a instaurare con loro un rapporto viscerale come quello che ho con il passo Gavia.

Non ricordo quando sia nato questo amore, però già da ragazzino avevo voglia di andare lassù, a 2.621 m di quota. Sapevo che era un posto selvaggio, di alta montagna, con reperti militari della Grande Guerra.

Potrebbe essere stata questa foto a farmi innamorare. Si vede Imerio Massignan al Giro d’Italia 1960, quando il Gavia viene affrontato per la prima volta, l’8 di giugno: 43 km di sterrato da Ponte di Legno a Bormio, con fango e muri di neve… In salita Imerio dà un minuto e mezzo al francese Gaul, ha la maglia rosa in tasca, tanto dopo è tutta discesa. Solo che la discesa è piena di sassi, lui fora tre volte e in classifica non riuscirà neanche a salire sul gradino più basso del podio. È il genere di foto che mi fa uscire di testa, mi piace guardarla, mi ci struggo, voglio andare in un posto così.

Quando ho scoperto le moto sono venuto a sapere che la strada era sterrata, male in arnese e molto ambita dai motociclisti avventurosi. Per cui mi sono detto: «Appena avrò una moto, andrò sul Gavia e sullo Chaberton». Ma la mia prima moto non fu un’enduro, bensì una stradalissima Gilera 125 Arcore a 4 tempi.

Anche se la ricordo con forte nostalgia, era un’onesta motoretta da strada, con i freni a tamburo, che era stata presentata nel 1971. La mia però era stata immatricolata nel 1979 e io la comprai nel 1984, emozionatissimo.

La prima volta sul passo Gavia, meglio delle attese

Nell’ottobre 1985 venni ingaggiato per pulire il muschio che ricopriva i graffiti preistorici della Valle Camonica con uno stipendio di 1.100.000 lire. Ci andai in moto. Alloggiavo a Capo di Ponte, ad appena 55 km dal Gavia, per cui decisi che, al momento di tornare a Milano, avrei fatto il giro lungo. Nel parco archeologico c’era un signore che, quando seppe che volevo fare il Gavia con un’Arcore, mi predisse infinite sciagure.

Solo che più mi raccontava cose e più io volevo salire. Mi parlò del camion degli alpini precipitato nel 1954 e del camper VW che, per passare sotto a una roccia sporgente, dovette sgonfiare le gomme e smontare il tetto (era il modello con il soffietto, che ospitava un letto matrimoniale). Erano racconti da strade himalayane.

Così salii là in cima e fu il mio meraviglioso ingresso nel mondo dell’adventouring, molti anni prima che questo termine venisse inventato.

Il mio outfit era scandaloso. Mi sembra impossibile che io andassi per sterre con quella moto e conciato in quel modo! Scarpe da tennis, risvoltino alto e la moto sbagliata, che andava a fondo corsa, toccava sotto e non aveva cavalli, ma io ero al settimo cielo.

Alice nel paese delle meraviglie

Infatti verificai con mano tutto quello che avevo letto sulle riviste e che sognavo di poter vivere: nonostante fosse vietata al traffico con tanto di transenna, la sterrata del Gavia era affollata di motociclisti con XL, XT, GS. Persino una Guzzi V65 TT. Sembrava il Mercoledì da Leoni delle dual sport. È un po’ quello che succede oggi in strade come la Via del Sale o l’Assietta. I pezzi più assurdi erano la roccia sporgente del racconto del VW e un canyon posto sopra il lago Nero.

Una volta in cima ed entrato a mangiare al Rifugio Bonetta, mi sentivo parte della famiglia degli enduristi esploratori. Scendendo verso Bormio, però, le cose mi andarono male quasi come a Massignan, perché spaccai due raggi e a Milano ci arrivai con il cerchio deformato e la moto che oscillava. Ma ormai ero entrato in questo mondo e ci volevo restare.

La tenda fa paura

Così, nel luglio del 1986 andai a montare la tenda lassù, insieme a mio fratello. Io sempre con l’Arcore, lui con una Honda XL125SD. Anche lui fu esaltato dalla massa di gente che andava su e giù con moto fighissime, in testa a tutti un tedesco con una BMW R80 G/S Rahier Replica che andava come un pazzo. Ma io, questa volta, il Gavia lo vissi in maniera diversa. La notte in tenda fu tosta, perché la temperatura andò sotto zero e non c’eravamo abituati. Inoltre imparammo che è facile sentire suoni che sembrano quelli di un pazzo maniaco che ti viene a sgozzare, allora esci per combatterlo ma non c’è nessuno. Alla fine concludemmo che fu una notte fredda, paurosa ma affascinante.

Mi sentivo parte della famiglia degli enduristi esploratori

Io avevo proprio voglia di andare in fuoristrada con la moto e ai tempi non c’era una grande etica ecologica, per cui scorrazzammo in giro per le praterie intorno al lago Bianco senza che nessuno venisse ad arrestarci. Ma l’Arcore soffriva troppo. Riuscii a comprare una Honda XL200R Paris-Dakar e a salirci sul monte Chaberton ma, ovviamente, volevo tornare sul Gavia, cosa che feci nel settembre del 1987. Io sapevo benissimo che, due mesi prima, una frana spaventosa staccatasi dal monte Zandila (2.937 m) aveva ridisegnato la geografia dell’Alta Valtellina.

Questa frana si vede bene ancora oggi a occhio nudo… e con Google Earth: è a destra della foto. Si staccò da quota 2.360 m e piombò sui paesi di fondo valle a 1.000 m di quota, seppellendoli e creando una diga che bloccò il corso del fiume Adda. Morirono poche persone perché i villaggi erano stati già evacuati. Fatto sta che il collegamento tra Bormio e la Bassa Valtellina era interrotto, quindi venne riaperta la strada del Gavia.

Gavia is dead

Io, ignaro della cosa, arrivai con la mia XL deciso a divertirmi un sacco e scoprii che il percorso era stato asfaltato quasi tutto e allargato in molti dei punti più spettacolari. Non solo: il canyon sopra al lago Nero era stato fatto esplodere, la roccia sporgente amputata di un bel pezzo e in più stavano scavando una galleria per eliminare tutto quel tratto. Di sterrato resisteva solo la parte nel bosco del versante sud, poco sopra Santa Apollonia.

In queste foto del 2013, come vedete, è asfaltato pure quello. Fu uno shock, tanto che mi scrissi sul casco, con un pennarello indelebile, «Gavia is Dead» e disegnai una persona che piangeva disperata. Ma poi, quando la commessa di un negozio di fotografia mi chiese chi fosse Gavia, io diventai rosso e balbettai aria fritta, perché mi ero invaghito di lei e mi vergognavo a spiegare che a morire era stato un passo di montagna.

5 giugno 1988

Per cui decisi che non ero più innamorato di lui. Lo Chaberton, lui sì che mi capiva, con la sua strada disastrata che saliva oltre i 3.000 metri. Allora il Gavia, per tornare nelle mie grazie, s’inventò la più delirante delle tappe del Giro d’Italia. Era il 5 giugno del 1988 e diluviava su tutta la Lombardia. Io notai che a Milano c’erano 15 gradi, quindi mi dissi: «Se fa 15 gradi a 120 m sul mare, che marasma di neve ci sarà a 2.621?». Così accesi la TV. Non ci si capiva molto, perché c’era nebbia.

Ma quello che si vedeva era tosto: nevicava come speravo, però i ciclisti non erano preparati. In foto si vede una Aprilia Tuareg 600 utilizzata come porta ruote, per evitare che i ciclisti facessero la fine di Massignan.

Io non sono un sadico, sono affascinato dalle condizioni difficili ma per me vale il concetto che non esiste il cattivo tempo, bensì il cattivo equipaggiamento.

Per cui non posso capire l’olandese Van der Velde che arriva in cima in maniche e calzoni corti e poi si tuffa in discesa senza farsi dare abbigliamento pesante dall’ammiraglia. C’era nebbia, in tv Adriano De Zan continuava a dire che Van der Velde era sparito nel nulla. Ed era vero! Non c’era più.

Al traguardo arrivarono in volata l’olandese Breukink e lo statunitense Hampsten che, vivendo in Colorado, era esperto di condizioni invernali e in discesa si era coperto. Van der Velde arrivò soltanto tre quarti d’ora dopo e si scoprì che in discesa stava morendo di freddo, così era entrato nel camper di una coppia di spettatori e si era fatto scaldare con coperte e tè caldo.

Gavia, ti perdono

Questa cosa ha reso il Gavia un posto mitico e maledetto. Anche se asfaltato, mi era ormai entrato nel sangue, molto più del vicino Stelvio, che gode di fama ben maggiore. Ci sono salito tantissime volte, non so quante. In bicicletta tre, in moto milioni, in auto una sola perché avevo il terrore di rotolare di sotto. È uno di quei posti che non ti stufano mai, perché lo vivi sempre in maniera diversa a seconda della stagione, del clima e dello stato d’animo; ma anche perché lassù è così bello che ti senti felice e ci vorresti vivere. Nel 1993, quando lavoravo alla rivista Moto!, come regalo di compleanno mi concessero una BMW R 1100 RS per un intero week end e ci andai di corsa sul Gavia. Ricordo festoso.

Anche questo qui sopra è un bel ricordo: 1998, la mia fidanzata Paulahhhhhhhhh s’è appena comprata la prima moto, una Suzuki TU 250 X, dice che vuole viaggiare, le dico «Devi fare pratica, il Gavia è perfetto»: va tutto bene, si diverte, impara e si parte per Lisbona.

Questo invece è struggente: luglio 1996, vado lassù per dormire al rifugio Berni. È ora di cena e piove fortissimo. Nuvole basse, un freddo cane, luce cupa tipo Apocalisse, io guido svelto pensando al calore che troverò nel rifugio quando, in un pascolo accanto alla strada, vedo una mandria di ottomila mucche racchiuse in venti metri quadrati: si sono appiccicate le une alle altre per stare più calde. È una visione drammatica, da altopiano mongolo, che mi fa innamorare del Gavia ancora di più.

Cinquecentocinquanta

Ma le mie frequentazioni sono pochissime, se consideriamo che l’imprenditore parmense Tarcisio Persegona l’ha scalato la bellezza di 550 volte con la bicicletta fino al 2018, quando è stato fermato da un aneurisma, a 80 anni di età. Era una leggenda e io mi domandavo: possibile che non lo incontri mai? Infatti è successo, nel 2013.

Eccolo lì. Mi entrò nell’inquadratura mentre puntavo le moto là in fondo. Poi si fermò e disse: «Questa è la mia 333° volta». Nei 5 anni successivi ne ha fatte altre 217, ovvero 43 all’anno. Considerato che il Gavia è aperto da giugno a fine ottobre, ovvero cinque mesi all’anno, vuol dire che lui si scalava quel passo due volte alla settimana!

La foto che stavo scattando era questa. Era fine maggio e il Gavia aveva appena aperto dopo il letargo invernale ma, come si vede, aveva ancora un aspetto assai poco primaverile: quello sarebbe il lago Bianco, ma sembra il pack. E anche qui abbiamo uno dei motivi per cui io amo questo posto: l’inverno è la mia stagione preferita e quassù sembra di essere in un Paese artico.

Il Gavia è un “passo altopiano”, ovvero in cima presenta una pianura prima di scendere dall’altra parte (come il Valparola o il Piccolo San Bernardo), mentre sui “passi aguzzi” (tipo lo Stelvio o il Manghen) la salita di qua e la discesa di là sono praticamente incollati. La pianura sommitale del Gavia, ai primi di giugno, mi fa stare bene come se avessi una casetta in Groenlandia.

Il lago Bianco al disgelo… Quanta poesia c’è? Pensate che, nello stesso momento, nelle città padane si schiatta dal caldo e in spiaggia la gente fa già il bagno. Per cui è diventato un classico, per molti, venire in moto quassù non appena la strada viene aperta al traffico, per provare le esotiche sensazioni di una “gita invernale di inizio estate”. A seguire, foto scattate tra il 1992 e il 2019.

Quassù sembra di essere in un Paese artico

Quando arrivo in cima non penso che quella bella casa in mezzo alla neve sia un’ex colonia, perché non riesco ad associare la parola “colonia” a un posto così bello. Mi hanno traumatizzato i miei, con anni di: «Se fai il cattivo ti mandiamo in colonia».

I muri di neve del Gavia fanno impressione, vero? Ma non saranno mai come quelli che si trovano salendo a Murobo, in Giappone. La strada in questione conduce a una conca a quota 2.450 m, sotto al monte Tateyama (3.015 m). Vista in questa foto, che è l’apertura del sito Alpen Route, sembrerebbe soltanto una strada estremamente libidinosa.

Ma sono i muri di neve a rendere questo posto unico al mondo. Una cosa fuori di testa, le cui foto girano da anni, molto prima che l’arrivo dell’intelligenza artificiale ci facesse diffidare di qualsiasi cosa.

Per uno come me, una strada simile sarebbe il Nirvana ma, se ho ben capito, la puoi fare solo in pullman, il traffico privato è vietato. E, per un motociclista, andare in un posto simile seduto dentro un autobus sarebbe una tortura insopportabile. Quindi basta denigrare il Gavia e i suoi muretti di neve!

Occhio che il fascino c’è anche al contrario in autunno, che è il Sabato del Villaggio dell’inverno. Ovvero salire sul Gavia quando fa già freddo e ti pregusti l’arrivo delle prime nevicate. In questa foto siamo a ottobre 2014, è l’alba e c’è già stata una spolverata sulle cime più alte.

Nella foto a sinistra siamo nella fase «ma lassù, sul passo, starà piovendo o nevicando?». Fin quella a destra siamo a settembre 2023 e i prati stanno ingiallendo. Hai sensazioni completamente diverse rispetto a giugno. In città è appena finita l’estate, fa ancora caldo, ma qui puoi già farti venire voglia di una cioccolata calda. In quale rifugio, però?

Inizialmente andavo al rifugio Berni (2.541 m), che si trova a 2 km dal passo in direzione Bormio, perché facevo scialpinismo, ero iscritto al CAI e lì i soci avevano lo sconto. L’ambiente era molto serioso. Ma poi ho scoperto il Bonetta, gestito da due sorelle mattacchione. O meglio: il rifugio è stato avviato da Duilio e Vittorina Bonetta l’8 giugno 1960, proprio sul valico, quando il Giro d’Italia passò sul Gavia per la prima volta.

Sessantacinque anni dopo è ancora in mano alla stessa famiglia, gestito dai figli Chicco, Silvano, Fabrizia ed Elisa. La prima volta che c’ho dormito era il 1992, ero in bicicletta e i fratelli maschi non c’erano. In compenso, oltre alle due sorelle, c’erano diverse altre donne e un unico cliente. Facemmo dei giochi da tavolo con penitenze assurde.

Ci feci pure un fumetto, a ricordo di quella notte. Poi in discesa verso Bormio spaccai i raggi (di nuovo! Nel 1985 in moto, nel 1992 in bici) e quindi tornai indietro, per pranzare da loro.

La cosa incredibile è che le sorelle si ricordano ancora di me: qua siamo nel 2021, un mese e mezzo prima che venisse a mancare Vittorina, a ben 92 anni. Se vi piace quel cippo color Giro d’Italia, sappiate che lo potete portare a casa. Ne vendono il modellino, insieme al profilo 3D della salita, proprio nel rifugio. Ora parlerò di altri tre aspetti del Gavia. Il primo è il lago Nero, fratello introverso di quello Bianco. Infatti si trova 300 m di quota più giù, sgela prima e, per arrivarci, devi fare una sterrata. Quindi è più intimo e meno frequentato.

La seconda questione mette il Gavia sullo stesso piano di altri passi alpini che vengono presi di mira da appassionati di veicoli particolari o esclusivi. Lungo tutto l’arco alpino, sui passi “star”, è normale vedere file di Fiat 500, Mini Minor, Maggiolini, Ferrari, Lambrette, furgoni VW Bulli, chopper… Eccone tre esempi.

Lamborghini, trickeroni tedeschi, Vespe. Credo che guidare una Lambo su questa strada sia una vera purga, ma ci vengono lo stesso. Il ciclista è il mio figlio primogenito, al quale ovviamente ho già inflitto la salita a questo passo per me mitico.

Ma ci sono anche i drammi

La terza questione riguarda delle vicende drammatiche che vengono qui ricordate in vario modo. Questa è romantica: il 2 ottobre del 1929 un albergatore tirolese, con moglie e madre, si trovò a passare di qui in auto, diretto a Ponte di Legno, ma la nebbia mandò tutti in panico, perché non vedere niente su una strada ripida, stretta, sassosa e senza parapetti può fare quell’effetto. Immagino il povero autista quanto si sia sentito sotto pressione, fatto sta che erano convinti che sarebbero finiti di sotto per cui, una volta in salvo, hanno fatto erigere il crocifisso che vedete sopra.

Invece coloro di cui parlerò adesso, purtroppo, di sotto ci sono finiti veramente. Si tratta di un camion di alpini del 6º Reggimento, Battaglione Bolzano che, il 20 luglio del ’54, mentre transitava in un punto strettissimo, col suo peso fece franare un muro di sostegno. In quel periodo la strada era vietata al transito ai veicoli con più di 14 persone a bordo. Qui ce n’erano 21. Tre di queste riuscirono a saltare giù in tempo. Il camion precipitò per 150 metri e morirono tutti i 18 rimasti tranne uno, che venne ricoverato in ospedale in condizioni disperate e, infatti, morì dopo poche ore.

L’incidente avvenne nel tratto che è stato dribblato dalla galleria. Ma la strada è stata lasciata tale e quale ed è ancora transitabile: è l’unica testimonianza di come fosse fino al 1987. Nel punto del disastro è stata messa una curiosa targa a ricordo.

Si tratta della copertina della Domenica del Corriere che parlò di quell’incidente, disegnata da Walter Molino. Costui era famoso per raffigurare le peggiori tragedie, tra l’altro concentrando tutto quello che succedeva in un solo istante: un classico era il bambino che precipitava dal sesto piano con 42 persone sbigottite alla finestra e 29 già in strada con le braccia tese. Come si vede, mentre il camion inizia il suo volo mortale c’è già gente che sta precipitando ben in basso, mentre altri sono già saltati fuori e sono appesi alle rocce.

Poco più a valle c’è la roccia sporgente, quella del VW con le gomme sgonfie e il tetto smontato per poter passare. Nel 1987 venne amputata di un bel pezzo. Nel 2004 è stata piazzata la lapide a ricordo dei 18 morti.

Perché proprio il Gavia?

Questo articolo finisce qui. Perché mi sono accanito così tanto sul Gavia e non su altri valichi? Non penso che sia il più bello o affascinante o interessante in assoluto, ma le cose sono andate così, sicuramente è il passo che ho vissuto di più in assoluto. Succede in questo modo anche con i propri partner. Se mi offrissero 500.000 euro per scrivere altrettanto su tutti i passi italiani, direi che per molti di questi non riuscirei a meritarmeli, quei soldi. Ma, in ogni caso, li vorrei netti, non lordi.