
di Donato Nicoletti
Una lunga astinenza dalla sella della propria moto può alterare l’equilibrio interiore e far compiere azioni sconsiderate al povero centauro represso, che vive come una ingiusta segregazione la lontananza dalle strade del mondo.
Il rischio conseguente è che, nel caso dovessero verificarsi le condizioni favorevoli a una ripresa dell’attività motoria, la deflagrazione mentale del soggetto in questione raggiungerebbe drammatici picchi di follia.
Accade così che nel 2006 decido di andare all’arrembaggio di terre lontane, rese epiche dai riflessi mediatici dell’epoca in cui i raid africani animavano i sogni degli appassionati. La scelta non poteva che cadere sul Lac Rose, punto di arrivo della mitica Paris-Dakar. L’idea era molto semplice: partire da Milano, attraversare il Sahara lungo la rotta occidentale – ormai quasi tutta asfaltata dai cinesi – arrivare nella capitale del Senegal, fare inversione e tornare indietro.
Tutto questo ad agosto, quando nel deserto i 40° non sono un miraggio ma la norma e a sud del Sahara imperversano le piogge monsoniche: se non è follia questa…
E così faccio, macinando centinaia di chilometri alla volta martellato dal caldo, arrivando alla frontiera mauritana ignaro delle mine disseminate tutt’intorno, affrontando la dogana senegalese da solo contro una mezza dozzina di marcantoni color ebano che vedevano in me solo un portafogli con le gambe.
Poi l’impatto con la realtà subsahariana, che prima di allora avevo visto solo in televisione. Un altro mondo, pieno di colori e di calore, ma anche dell’opportunismo predatorio tipico delle politiche usurpatrici europee, la peggiore eredità che il colonialismo ha lasciato a Paesi che avevano bisogno di crescere, non di restare ancorati all’età della pietra per essere saccheggiati fisicamente e moralmente, prima dagli occidentali poi da quegli stessi figli d’Africa scaltri, avidi e senza scrupoli.
Poi il ritorno: la tempesta di sabbia in Mauritania, le sconfinate distese dell’hammada in Marocco, l’attraversamento dello Stretto di Gibilterra e l’arrivo a Milano dopo 13.000 chilometri.
L’impatto con la realtà subsahariana, che avevo visto solo in televisione
Tutto finito? Nemmeno per sogno. Il fine settimana seguente vado a percorrere la Via del Sale col trattore di Milwaukee dopo avergli fatto attraversare il Sahara due volte. A quel punto avrei dovuto sentirmi ampiamente soddisfatto: e invece no, peggio.
Mentre saltavo sui sassi al tornante della Boaria mi dissi che se avevo fatto tutto ciò, perché non avrei potuto arrivare fino in India per salire sull’Himalaya? Bene, io ancora non lo sapevo, ma quel pensiero folle fu l’inizio di una parabola che mi avrebbe sì portato sul tetto del mondo, ma anche al punto di partenza di una nuova vita.
Cose Che Capitano pubblicato su RoadBook 50

