Appunti – Le sfide inutili e bellissime

di Dario Tortora


C’è qualcosa di profondamente umano nell’attrazione per le difficoltà. Non parlo delle prove da superare per dimostrare qualcosa a qualcuno, né della sfida come confronto con altri in una cornice competitiva fatta di tempi e classifiche.

Parlo piuttosto di quella spinta interna a cercarsi ostinatamente la complicazione. È una pulsione che conosciamo bene, noi che insistiamo a percorrere strade piene di curve, a partire all’alba quando potremmo dormire, ad affrontare salite ripide, sabbia molle o sterrati infami anche quando nessuno ci obbliga a farlo.

Non lo facciamo per metterci alla prova in senso tradizionale: non ci interessa essere i migliori e non puntiamo a battere nessuno. Se c’è un confronto, è con quella parte di noi stessi che suggerisce di lasciar perdere, di accontentarsi.

La sfida, insomma, è tutta lì: scegliere l’inutile, l’invisibile, il faticoso, il complicato, quando il mondo tutto attorno ci invita a una continua semplificazione.

Si potrebbe pensare che questo atteggiamento abbia a che fare con un certo spirito eroico, con l’epica dei pionieri, con la nostalgia delle avventure dei tempi andati, ma sarebbe riduttivo. La verità è più sottile: a volte, l’uomo ha bisogno di complicarsi la vita per ricordarsi di averne una.

La moto, in questo senso, è solo uno strumento, un amplificatore. Non c’è nulla di romantico nel fango che si attacca ovunque, né nella schiena che urla dopo ore in sella, ma dentro a quei fastidi si nasconde un appiglio alla realtà. Allora continuiamo a partire, a perderci e a tornare perché è proprio in quei frangenti che risiede una forma di semplice verità che altrove fatichiamo a trovare.

Nei momenti più duri di un viaggio – quelli in cui ci chiediamo chi ce l’abbia fatto fare – ci stiamo concedendo il lusso di abitare il tempo in modo pieno, di essere presenti. Ecco dove la sfida si separa dalla competizione.

Scegliere l’inutile, l’invisibile, il faticoso, il complicato

Potremmo stare più comodi, scegliere l’autostrada, la moto più leggera, il viaggio organizzato. Ma non lo facciamo, non per snobismo o masochismo, ma perché ci fa bene. Abbiamo capito di aver bisogno di una dose periodica di imprevisto per rimettere a fuoco quello che conta.

Alla fine non è questione di coraggio, né di capacità tecnica. È questione di disponibilità personale: a faticare, a perdere tempo, a uscire dalla traiettoria più logica. E proprio lì, quando ci ritroviamo esausti, magari con una gomma bucata e il sole che cala sull’orizzonte, ci sorprendiamo a pensare che non vorremmo essere da nessun’altra parte.

Editoriale pubblicato su RoadBook 49